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Rosario Gigliotti è il nuovo referente regionale di Libera Basilicata

17/11/2025



È Rosario Gigliotti il nuovo referente regionale di Libera Basilicata. L’elezione è avvenuta sabato 15 novembre durante l’Assemblea regionale ospitata al Polo Bibliotecario, alla presenza dei presidi, delle associazioni della rete territoriale e dei vertici nazionali di Libera: la copresidente Francesca Rispoli e la direttrice Simona Perilli.


Nel suo intervento, Gigliotti ha tracciato una lettura lucida e severa della realtà lucana, segnata da infiltrazioni criminali, illegalità diffuse e diritti compressi, ma anche animata da storie di resistenza civile che chiedono di essere ascoltate.


“Viviamo in una Basilicata attraversata da operazioni antidroga che coinvolgono giovanissimi, da inchieste come Affidopoli che mostrano un sistema di affidamenti imbarazzante, da un impoverimento etico che alimenta silenzi e dipendenze. Per reagire serve coltivare una ‘rivolta’ capace di trasformare l’io in noi, rompendo la democrazia drogata da ricatti lavorativi e rendite'' ha detto il nuovo referente nel suo intervento.


''Dobbiamo ricordare- continua- le storie di chi ha subito ingiustizie – da Luca Orioli e Marirosa Andreotta a Elisa Claps, dai braccianti sfruttati ai migranti morti nel silenzio, fino a Gianluca Griffa, isolato per aver scelto la coscienza – perché queste ferite ci dicono da che parte stare. La sottrazione quotidiana di diritti restringe la democrazia e allarga lo spazio dello sfruttamento: per questo dobbiamo far entrare queste voci nelle nostre coscienze e costruire comunità di resistenze, non di connivenze. Occorre uscire dai recinti, creare nuove lenti per guardare oltre, perché le mafie sono internazionali e internazionale deve essere anche il nostro orizzonte di giustizia. Libera è questo: una comunità che sperimenta, studia, agisce. Essere Libera in Basilicata significa rendere possibile, insieme, un futuro diverso.”



Gigliotti ha richiamato la necessità di rafforzare la rete territoriale, aprirsi a nuovi linguaggi e coinvolgere le giovani generazioni, comprese quelle che dalla regione sono partite ma che continuano a sentirla propria. Ha ricordato come la memoria delle vittime innocenti di mafie, ingiustizie e sfruttamento rappresenti una bussola per orientare le scelte civiche e politiche del presente. Una memoria che non deve trasformarsi in commemorazione passiva, ma diventare motore di impegno. Nella conclusione, il nuovo referente ha richiamato il ruolo internazionale assunto negli anni da Libera: un orizzonte che supera i confini regionali per confrontarsi con fenomeni criminali globali, conflitti e ingiustizie transnazionali. La sua elezione apre ora una nuova fase per Libera ''in'' Basilicata, chiamata a rafforzare le proprie resistenze in un contesto in cui “la lotta non può esistere senza un sogno e senza un orizzonte verso cui tendere”.


 


 


Intervento integrale del nuovo referente regionale di Libera Basilicata

 

Proprio in questi giorni si sono susseguite le notizie di un’importante operazione antidroga a Ferrandina, che vede coinvolti giovanissimi appartenenti a un clan collegato alla criminalità campana. Mentre nei prossimi giorni si terrà l’udienza preliminare nei confronti del crimine organizzato nel metapontino, da sempre terra di frontiera e di traffici.

Ma c’è un substrato da cui emergono profili di illegalità che toccano le istituzioni in maniera allarmante, ancora tutti da decifrare nella loro ampiezza e profondità.

Ci sono fatti nella nostra regione che stanno suscitando sentimenti di indignazione, ma non ancora una presa di coscienza collettiva su quanto appare davvero come la punta dell’iceberg di fenomeni molto più diffusi, molti dei quali neanche percepiti nella loro effettiva gravità. L’inchiesta denominata “affidopoli” ci consegna un quadro imbarazzante di affidamenti, perfino con un pagamento su conti esteri, da ben cinque enti regionali e dal Comune di Potenza a società finte con sullo sfondo personaggi e red carpet a cui tanta parte della società lucana non ha saputo sottrarsi, come in un teatro dell’assurdo, a metà tra il provinciale e il grottesco.

 

C’è una frase di Albert Camus, che mi ha particolarmente colpito:

“mi rivolto, dunque siamo”.

Ecco, credo che coltivare questo senso di rivolta possa essere un buon modo per passare dall’io al noi. È ciò che dà il senso di un impegno, che è anche una trasformazione progressiva, una pratica quotidiana, per rompere quel muro di silenzi, quei condizionamenti del lavoro, della dipendenza, della “democrazia drogata” da royalties o posti di lavoro che ti assoggettano, magari implicitamente, come atto dovuto di riconoscenza a vita.

È questo che provoca un pauroso impoverimento etico delle nostre comunità, già duramente provate dal progressivo spopolamento, dal viaggio di sola andata di tanti giovani, che vorremmo invece coinvolgere, anche chi torna in Basilicata solo saltuariamente, nella costruzione delle nostre resistenze libere.

 

In questa costruzione ci sono storie che abbiamo il dovere di ricordare, perché mettono a nudo i mali oscuri della nostra società.

Una società in cui la dignità delle persone è spesso sopraffatta e i diritti sono calpestati. Ci sono storie, che devono essere ricordate perché sono scomode, perché disturbano il quieto vivere e le convenzioni di una società che ti insegna ad andare dritto per la tua strada, senza guardare quello che c’è ai margini e, soprattutto, senza farsi domande. E non importa se questo erode giorno dopo giorno un pezzo della nostra umanità. Se quel “restiamo umani” a cui ci richiamava Vittorio Arrigoni resta solo, alla fine, un appello dimenticato.

Al contrario, se vogliamo, che l’etica liberi la bellezza del sentirsi vivi, possiamo scegliere da che parte stare. E un buon modo per scegliere è provare a guardare negli occhi gli scarti di quel modello, a guardare dentro le storie delle vittime, a comprendere fino in fondo su cosa si fonda il modello di una società, che non si fa scrupoli, per la logica del profitto, a sposare un’economia di guerra o a lasciare che le mafie e la corruzione divorino ogni giorno diritti e speranze.

 

Anche nella nostra regione, è sotto gli occhi di tutti quanto ogni giorno la sottrazione di diritti abbia ridotto gli spazi della democrazia, creando invece ampi spazi ad ogni forma di sfruttamento.

Ripercorrere alcune di queste storie, storie di verità negate, di coraggio o di rassegnazione, di lotta o di silenzio, è utile per indicare a noi stessi una strada da percorrere. Per capire quali sono le strade di riscatto, le nostre possibili resistenze libere.

 

È una storia che risale a 37 anni fa, quella di Luca Orioli e Marirosa Andreotta. Una storia di cui probabilmente non si parlerebbe più se non fosse per l’ostinazione di una mamma coraggiosa, Olimpia Fuina, che non si rassegna ad accettare che a suo figlio Luca non sia riservata, almeno, la verità su quello che accadde quella notte. La notte in cui fu individuata una verità plausibile e fu ordinato il silenzio, perché lo scandalo era troppo grande e il silenzio sarebbe stato la cosa migliore per tutti.

Ma quel silenzio, ancora oggi, scuote le coscienze di chi, ascoltando le parole di Olimpia, può toccare con mano quanto sia profonda la ferita della giustizia negata.

L’Italia è piena di storie di giustizia negata, dalle vittime di mafia alle stragi agli incidenti misteriosi o ai suicidi non suicidi alle persone scomparse nel nulla. E il silenzio non è mai la cura. Non lo è per i familiari delle vittime, non lo è per le comunità che non sanno o non vogliono guardarsi dentro.

Il silenzio non è una cura, ma ad esso, a volte, ci si può aggrappare, come una verità buona solo per rassegnarsi. Un’altra donna, la mamma di Marirosa, ha accettato, forse, una verità ipotetica come una benda su una ferita aperta e sanguinante. Una verità di fronte alla quale fermarsi come di fronte a una porta chiusa, che non è la Giustizia, ma la Legge. Quella Legge che può, a volte, trasformarsi nella somma ingiustizia

Non spetta a noi giudicare la rabbia, l’indignazione, il coraggio o la paura, la speranza o la rassegnazione dei familiari delle vittime. Perché al dolore ci si può solo affiancare in punta di piedi.

Al silenzio, però, abbiamo il dovere di opporre la voce dei senza voce, la voce degli ultimi, delle vittime, dei loro familiari relegati nel buio.

Lo dobbiamo a Luca e a Marirosa, ai loro sogni di ragazzi. Come lo dobbiamo ad Ottavia De Luise, a Mario Milione, Vincenzo De Mare, Maria Antonietta Flora, Giuseppe Passarelli, Anna Esposito. Sono nomi e storie e vite. Tutte storie senza verità e giustizia.

Volti e storie note come quella di Elisa Claps, la cui vicenda drammatica ha trovato dopo ben 17 anni solo una parte della verità e della giustizia. E l’ha trovata lì, sotto gli occhi di tutti, dove nessuno ha mai guardato.

Un volto, quello di Elisa, che trova oggi nel progetto di un ambulatorio in Africa il modo per realizzare il suo sogno di potersi dedicare ai più bisognosi. Mentre restano ancora, anche in questa storia, le macerie dei troppi silenzi, delle verità negate, delle coperture e dei depistaggi.

 

Ma sono anche voci e volti spesso sconosciuti e dimenticati. Ma da non dimenticare. Come quello di Belmaan Oussama, suicida nel CPR di palazzo San Gervasio; era solo un ragazzo di 19 anni che ha avuto l’ardire di cercare una vita migliore fuori dal suo Paese e che vedeva privata la sua libertà personale, pur non avendo commesso alcun tipo di reato.

Come i volti di Kumar Manoj, 34 anni, Singh Surjit, 33 anni, Singh Harwinder, 31 anni, e Singh Jaskaran, 20 anni, i quattro giovani indiani morti in un incidente stradale, non una semplice fatalità, ma una conseguenza delle condizioni dei braccianti migranti impiegati in agricoltura, sfruttati, senza diritti e vittime del caporalato. Anche nella nostra regione.

 

Tocca a noi fare da amplificatore a queste voci, ma tocca a noi, prima di tutto, farle penetrare nelle nostre coscienze.

 

Sono storie come quella di Gianluca Griffa, il giovane ingegnere schiacciato dal peso enorme che gravava sulla sua coscienza, che gli aveva impedito di assecondare gli ordini dei suoi superiori, di fronte al rischio di un disastro ambientale, come poi si è puntualmente verificato, a distanza di 4 anni, nel centro Oli in Val d’Agri.

Eppure, il suo silenzio sarebbe stato ben ricompensato, con soldi e carriera. “Agì con coscienza e scrupolo, ma venne emarginato”; lo sottolinea il gip del processo Petrolgate nei confronti di ENI. Gianluca Griffa fu isolato e allontanato, per essere sostituito da un giovane, come molto giovane era lui all’inizio del suo incarico. Nelle carte, emergono i dubbi su queste modalità di selezione di ENI: “Prendono i giovani perché sono più facilmente controllabili”.

Così quegli ordini a cui si era opposto, ma che non avevano portato a ripensamenti da parte della società, e le conseguenze potenziali di quelle colpevoli omissioni da parte dei suoi superiori erano diventati un macigno per una coscienza limpida come quella di Gianluca Griffa.

 

La sua storia, allora, deve essere un macigno per tutti noi. Non solo per un dovere di memoria nei confronti di una persona perbene, ma perché ci insegna che nessuno deve essere mai più lasciato solo a contrastare le convenzioni di una società dove la mafiosità dei comportamenti diventa la regola, ciò che conviene.

E di queste regole non scritte, ma pervasive, che si avvalgono i poteri criminali e quelli, altrettanto criminali, anche se apparentemente puliti e legali, che possono farsi padroni delle risorse e dei beni comuni, sottraendo diritti e democrazia alle comunità.

 

Ecco perché la voce delle madri come Olimpia e Filomena, ma anche il silenzio dei figli, dei fratelli e delle sorelle, di famiglie lontane e sconosciute, sono un richiamo ad essere comunità di resistenze, piuttosto che di connivenze, ma anche società di lotte e di relazioni limpide, piuttosto che di asservimenti. Ricordarlo, ricordarcelo, non può che essere l’unica strada che ha senso percorrere, anche se a qualcuno, a quei poteri che basano sul silenzio e sull’indifferenza la loro forza, tutto questo darà fastidio.

 

Per concludere, per riprendere il cammino, abbiamo probabilmente bisogno di uscire ancora di più dai recinti dei nostri gruppi, per sperimentare la pratica collettiva a partire dalle proprie identità, ricchezze e diversità. Dovremo saper includere, ma anche saper distinguere.

Dovremo costruirci, quindi, delle lenti grandi non solo per guardare in profondità, ma per guardare oltre, perché nessuna lotta può esistere senza sogno e senza un orizzonte verso cui tendere.

I grandi movimenti, in gran parte spontanei, di questi mesi, nati da un senso di rivolta verso la follia della guerra, verso il genocidio a Gaza, ci hanno fatto camminare e muovere, liberando energie che forse non si vedevano o percepivano dai tempi del World Social Forum.

 

È il segno che il nostro qui ed ora non è solo la Basilicata. Che se le mafie sono internazionali anche il nostro orizzonte di giustizia è molto più grande. Libera ha acquisito negli anni anche questa dimensione internazionale, perché da essa non si può prescindere.

 


Libera è una sperimentazione continua di comunità, e, pertanto, una grande opportunità di scambi e di incontri, di studio e di azione. Conoscerla di più ci aiuterà, più che ad essere Libera Basilicata, ad essere Libera in Basilicata. Perché di questo, oggi più che mai, abbiamo bisogno. E insieme sarà davvero possibile.



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