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Essere ed apparire |
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9/03/2012 | Una domanda che chiunque si è posto, almeno una volta nella vita, è la seguente: “si può essere veramente felici”? La risposta non è affatto semplice dato che molto dipende dal modo in cui si interagisce con l’ambiente circostante. Nel pronunciare la parola “infelicità” balza subito alla mente un’altra parola: “disarmonia”, o anche discordanza, dissonanza. L’immagine figurativa più immediata è quella di due onde elettromagnetiche con eguale frequenza ma verso opposto. Volendo adeguare il concetto alla mente dell’uomo dobbiamo pensare al fatto che l’individuo e il suo ambiente sono in costante interazione. Può essere, la felicità, il frutto di questa interazione? È una delle risposte plausibili. Il mondo animale ci insegna che una giusta interazione con l’esterno se non dona la felicità crea, volendo rimanere fedeli al nostro assunto, almeno un’armonia, presupposto per la felicità. Proseguendo vediamo che l’individuo ordinario e conformista è un passo avanti su di una ipotetica scala comportamentale, in quanto integrato con il suo ambiente e in quanto uomo: capace quindi di concepire idealmente la felicità e di organizzare la propria vita in modo complesso per raggiungerla. Più avanti ancora vi è l’intellettuale il quale, fondando la sua ricerca su solidi principi etici e filosofici, meglio di altri riesce a raggiungere quell’equilibrio che poniamo a fondamento della felicità. Nemico di quest’ultima categoria di individui è il dubbio: nemico al punto da essere in grado di rompere, in alcuni casi, l’intero equilibrio su cui la personalità si regge. Ma essi sono solitamente ben schermati e protetti da questo pericolo: sia dal loro modo di essere e di pensare che dalla società che li ospita. Proseguendo troviamo gli artisti. La loro è una felicità pura perché riesce a spostarsi in un mondo ideale che è quello dell’arte. L’artista non si cura delle convenzioni e dei modelli sociali e trae beneficio solo dalla tecnica espressiva che origina però nel mondo delle sensazioni e dell’anima e quindi al di fuori del mondo reale. Risulta in questo modo improbabile che venga a crearsi il fenomeno della dissonanza. Ma allora chi è l’infelice? Possiamo affermare che lo è di sicuro il genio letterario e della poesia. Esso attinge per la sua ispirazione dall’umanità, quindi la vive. Nello stesso tempo è profondamente diverso da ciò in cui è immerso. Sia che canti l’amore per una donna o per la natura. Le gesta epiche di cavalieri o la cronaca di un delitto la sua fonte ispiratrice è l’uomo e le sue parole sono un messaggio per l’uomo. Neanche la bibbia sfugge a questa regola. Allora il poeta vive in silenzio la propria fragilità, frustrato dalla solitudine; piegato dalla diversità. Esule in mezzo alla folla. Reietto rispetto al pensiero comune. Incompreso nelle sue emozioni. Accettato solamente nella sua condizione di carnevalesco travestimento quando è costretto a percorrere le vie del mondo recitando una parte: quella del “non essere”. Nella solitudine il poeta si sveste della lunga tunica nera e depone la maschera a becco: egli prende la penna e comincia a dipingere l’uomo non già com’è ma come lo sente la propria natura. Un tratto alla volta appare sul foglio bianco l’armonia dei versi, il profilo di un personaggio, la forma di un anima. Persino l’ilozoismo diviene un elemento essenziale di quella magia. In quei momenti, nulla si avvicina di più alla felicità della beatitudine del poeta: egli vive nel suo mondo perfetto e con esso raggiunge l’armonia piena. Ma è questa un’estasi fugace, una felicità caduca. E quando deve uscire dal suo paradiso per nutrire la propria fantasia ricomincia e respirare l’aria mefitica della mediocrità, il fetore dei corpi senza anima, terrorizzato da quegli sguardi vuoti, senza sogni. La felicità è solo in parte un traguardo individuale se per raggiungerlo bisogna tener conto di quello che si è!
Antonio Salerno
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