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LA LETTERA SCARLATTA |
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22/02/2011 | Prendiamo un uomo mediocre ed eleviamolo, non per le sue qualità ma per mezzo di un potere immeritatamente conferitogli, sopra gli altri e ne avremo fatto un feroce e spietato aguzzino per i suoi simili e il più fedele cane da guardia per i nostri personali interessi. Questa amara considerazione, dal contenuto scontato e conosciuto da sempre, scaturisce da quanto si è ascoltato negli ultimi tempi su certa stampa e su certa televisione. Un giorno è saltata fuori dal cappello magico dei media persino l’immagine dei puritani che mi ha indotto ad una attenta riflessione sulla condizione morale in cui versa la nostra società: e se veramente ci stessimo tutti trasformando in fondamentalisti religiosi? Per rispondere a questa domanda mi è parso giusto partire proprio dal celebre romanzo di Nathaniel Hawthorne dal titolo “la lettera scarlatta” che descrive, con l’occhio del romanziere, la vicenda di una donna che visse in una comunità di puritani. L’autore ci offre subito uno spunto nella pagina che di seguito, in forma ridotta, riportiamo: “ un gruppo di uomini barbuti, vestiti di scuro sotto gli alti cappelli grigi, e di donne – alcune incappucciate altre a testa nuda – era raccolto davanti ad un edificio di legno, dalla massiccia porta di quercia tempestata di grossi chiodi di ferro. I fondatori di una nuova colonia, qualunque sia l’ideale di giustizia e di felicità umana che li muove, sanno che uno dei loro primi compiti consiste nel destinare una zona del territorio al cimitero e un’altra alla costruzione di una prigione”. Qui, in questo passo, l’autore vola alto perché pone la giustizia e l’etica al di sopra delle convinzioni dei singoli gruppi etnici e religiosi e colloca queste due cose tra le esigenze irrinunciabili dell’umana specie. Forse che la nostra società stia davvero allontanandosi tanto dall’essenza classica della natura umana da poter fare a meno dei princìpi cardine su cui le società si sono formate sin dagli albori delle civiltà? Se così non fosse come mai quando si accenna all’esigenza di esercitare la giustizia si ha la sensazione di proferire una blasfemia? Forse più semplicemente, bisognerebbe mettersi d’accordo sul concetto di giustizia e su quali sono le regole da rispettare visto che secondo taluni le vecchie non sono più valide. L’Italia però non è una colonia da fondare; al contrario è un paese antico, da circa 2000 anni cristiano e riconosce regole morali e civili che si perdono nella notte dei tempi. Quando vedo alcuni paladini della cristianità a part time sfilare in televisione mi viene da pensare a quanta coerenza vi può essere tra ciò che questi signori accettano come status quo e la Legge di Mosè o quel passo del vangelo in cui Gesù dice all’adultera “va’ e non peccare più” e non “ va’ perché non hai peccato”. E allora nitido risuona, dagli Atti Degli Apostoli, il monito che sembra essere rivolto proprio a queste persone, contenuto nell’episodio della frode di Ananìa e di Saffira che donando solo la metà di un loro guadagno volevano così ingannare Dio. A questi cattolici improvvisati che si battono per le affissioni dei crocifissi nelle scuole e per le festività religiose, per discutibili fini elettorali bisognerebbe ricordare la morale del racconto biblico che ci dice che non si può essere a favore dei principi della Chiesa e dei propri interessi nello stesso tempo quando gli uni contrastano con gli altri. Non dico quale fu la punizione per questa impudente pretesa da parte di Ananìe e della moglie di avere il paradiso a metà prezzo ma inviterei i lettori a leggere questo passo molto significativo dei Vangeli (Atti 5.9). Per concludere con l’argomento della coerenza che occorrerebbe mostrare quando ci si spaccia per difensori dei valori cristiani citerò due passi dalla prima lettera a Timoteo dei quali ogni buon cattolico a mio avviso dovrebbe tener conto: (la vera funzione della legge) “sono convinto che la legge non è fatta per il giusto ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e i profanatori, per i parricidi e i matricidi, per gli assassini, i fornicatori, i pervertiti, i trafficanti di uomini ( e di donne o ragazze aggiungiamo oggi), i falsi, gli spergiuri e per ogni altra cosa che è contraria alla sana dottrina, secondo il vangelo della gloria del beato Dio che mi è stato affidato”. (ritratto del ricco cristiano) “ ai ricchi in questo mondo raccomanda di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza sull’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà in abbondanza perché ne posiamo godere”. Tutto questo ha da sempre fatto parte della nostra cultura e dei nostri valori e dovrebbe agevolare il compito sia di chi deve racchiudere queste regole etiche nei codici sia di chi le dovrebbe rispettare in quanto patrimonio morale comune. Ma allora perché, di fronte a fatti moralmente e giuridicamente rilevanti non solo si invoca la non perseguibilità ma si cerca anche una legittimazione sul piano morale? Forse la risposta è nella mente dell’uomo e nella sua natura. Tra i vari tipi di natura umana c’è quella del servo per vocazione. Ciò che dobbiamo chiederci è: chi serve ciecamente può avere il senso del giusto? Quando si è servi per scelta o per vocazione, di un uomo, del danaro, della sete di gloria e di potere si può portare la bandiera della giustizia? A mio avviso no! Il concetto stesso di servitù racchiude in sé quello del non dover mai mettere in discussione le scelte del proprio padrone. In questa ottica una parte almeno dei comportamenti degli “urlatori di professione di ogni tempo” si spiega ma ne rimane fuori la rassegnata passività della restante parte della società. In questa occasione però, nella difesa del diritto alla dignità della donna questa passività non si è vista e si è levata un’unica grande voce che ha voluto finalmente affermare la condanna della prostituzione del corpo e della propria dignità. Un profondo senso di disgusto ha percorso donne e uomini di ogni parte del mondo e tali sentimenti non erano rivolti ad un solo uomo o a determinate donne ma ad un possibile modello di società. C’e in oltre da considerare anche un altro aspetto della questione: questo tipo di prostituzione, delle donne in carriera per spiegarci, andrebbe ad inficiare anche un altro importante principio su cui si regge una società moderna e democratica: la meritocrazia. Secondo un certo modello comportamentale e sociale che si vorrebbe far passare come normale o quantomeno accettabile, per fare carriera non si dovrebbe essere bravi; non sarebbe affatto necessario passare tutti quegli anni a studiare perché la cosa essenziale per accedere a determinate posizioni sarebbe l’ essere attraenti e disposte a vendersi al potente di turno. Se solo volgiamo il nostro sguardo a quella moltitudine di ragazzi e di ragazze che sono stati allevati nella cultura del lavoro, del merito, del rispetto delle leggi e della propria dignità non possiamo che essere pervasi da un profondo senso di indignazione. Non accetteremo mai l’idea che coloro i quali avranno a cuore i sani principi della società saranno condannati a rimanere eterni perdenti. Se questo è il modello di società che ci viene proposto per giustificare le nefandezze di taluni allora persino i puritani potrebbero apparire come nostri salvatori. Quegli uomini e quelle donne che nel 1500, da pionieri, fecero i primi passi verso la costruzione dell’America messi a confronto con questo modello di società corrotto ed immorale non ci apparirebbero più così terribili come qualcuno in modo offensivo e volgare voleva dipingerli. Ma vediamo come le descrive il nostro autore quelle donne puritane e quanto inopportuno e infondato risulti il paragone con le donne della protesta: “ in quella mattina d’estate in cui ha inizio la nostra storia, si poteva notare come le donne, numerose tra la folla, fossero quelle che prendevano maggiore interesse a quanto stava per accadere. I tempi non comportavano ancora tanta finezza di sentimenti da impedire a queste creature vestite di sottana e corpetto di scendere in strada e di mescolarsi, quando se ne presentava l’occasione, alla gente che si accalcava attorno ad un patibolo. Moralmente e materialmente quelle donne e quelle ragazze, di antico sangue inglese, erano di fibra molto più rude delle loro discendenti venute al mondo sei o sette generazioni dopo : attraverso questa catena atavica infatti, ogni madre ha trasmesso ai figli un sangue più mite, una bellezza più fragile e più effimera, un aspetto più delicato del suo, se pure uno spirito non meno forte e sicuro. Le donne che si affollavano attorno alla porta della prigione vivevano a meno di mezzo secolo di distanza da quella Elisabetta che era stata la più tipica rappresentante del suo sesso. Erano sue compatriote: la carne di bue e la birra erano parte integrante della loro natura; né le loro doti morali erano gran che più raffinate. Lo sfolgorante sole del mattino illuminava spalle robuste, seni esuberanti e visi tondeggianti e rubicondi che, maturati sotto altro cielo, il clima della Nuova Inghilterra non era ancora riuscito a fare avvizzire. I discorsi di queste matrone – chè tali sembravano la maggior parte di esse- erano così franchi e arditi che, a udirli oggi, ci avrebbero sconcertato sia per l’argomento sia per il tono”. A queste donne gli urlatori paragonano il popolo delle donne italiane. Ma i visi che le camere hanno inquadrato nelle piazze e nei cortei il giorno della protesta erano di tutt’altro tipo: mamme, studentesse, donne intellettuali, professioniste e casalinghe che amano la propria famiglia. Dai loro commenti non uscivano parole di odio o risentimento nei confronti delle ragazze coinvolte nello scandalo bensì un profondo senso di solidarietà per le vittime di cattivi maestri consumati nel praticare abilissimamente l’arte dell’inganno, illusionisti senza scrupoli, mercanti di carne umana spietati ed insensibili. Quei cortei, quelle voci ci sono apparse come un unico fascio di luce intensa in grado di togliere la maschera e il terrificante mantello ai carnefici del futuro morale dei nostri figli e l’immagine più terrificante che resta non è quella dei puritani bensì quella dell’urlatore, simile alla raffigurazione di mangiafuoco: enorme, barbuto, violento con le fauci spalancate nell’ambiguo gesto di urlare o divorare qualcuno dopo averlo cotto sul fuoco attizzato con i suoi sfortunati burattini che pur non servendo più ai suoi guadagni conservavano comunque un’anima…
Antonio Salerno
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