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A Lavello per ricordare Alberto Jacovello, cronista scomodo e coraggioso

28/08/2017

Lo scorso 23 agosto a Lavello, presso l’auditorium dell’Istituto di Istruzione Superiore “Solimene”, s’è tenuta la Terza edizione del Premio Giornalistico Nazionale “Alberto Jacoviello”, organizzato dalla sua famiglia e dall’amministrazione comunale. Nato a Lavello nel 1920, Alberto Jacoviello è stato una delle più grandi penne del giornalismo italiano; per ricordarlo – e a suo onore – sono stati premiati Giovanna Botteri, inviata speciale RAI, e Massimo Giannini, giornalista già vice direttore di La Repubblica e poi conduttore di Ballarò. Ma è Vitantonio Jacoviello, suo nipote, a raccontarci di lui…
Siamo alla terza edizione del Premio Giornalistico Nazionale a lui dedicato. Tre anni di forti emozioni, per chi riceve il premio ma anche per chi organizza un simile evento, legate alla sua forte figura…

Sono stati tre anni di intenso lavoro, indubbiamente; ma anche tre anni di grandi soddisfazioni, legate a tutti i giornalisti che ho contattato per insignirli di questo premio: tutti immediatamente mi hanno detto “sì”, pensando alla figura di Alberto Jacoviello che molti hanno conosciuto personalmente. Nelle prime edizioni sono stati premiati Antonello Caporale, prima di La Repubblica poi de Il Fatto Quotidiano; Bernardo Valli, corrispondente de La Repubblica a Parigi; e mi piace molto ricordare Rocco Brancati, grande giornalista storico lucano ed unico giornalista lucano ad essere premiato finora. L’anno scorso abbiamo premiato Nico Piro, corrispondente RAI da New York, e Ferruccio de Bortoli, che non ha bisogno di presentazioni; quest’anno, invece, Massimo Giannini e Giovanna Botteri.

1. Un cronista – come amava definirsi – coraggioso, scomodo ma, per certi aspetti, anche solo, se pensiamo ai tanti incarichi affidati e poi revocati (specie dopo le sue cronache dall’Ungheria) sia dalla dirigenza de L’Unità che dal suo partito, il PCI. Pagava cara la sua indipendenza di pensiero?!


La pagava molto cara, ma il prezzo lo sceglieva lui. Indubbiamente, un personaggio così scomodo non fa “carriera”, ma non gli è stato mai revocato un incarico – e questo lo racconta lui stesso in quell’intervista, che fece insieme ad Indro Montanelli, rilasciata sugli eventi in Ungheria. L’Unità, come molti altri giornali, aveva una bacheca pubblica dove esponeva il giornale; giornale sempre girato sull’ultima pagina dove lui curava una breve rassegna – “Rassegna Internazionale” – che riportava le sue iniziali e che curava come capo dei servizi esteri. Ma fu lui – e questo lo ricordo benissimo – a dare le dimissioni da responsabile dei servizi esteri, proprio per non sentirsi responsabile della mancata descrizione della verità che faceva sia il giornale che il partito.

2. L’Unità non pubblicò che pochi stralci dei suoi articoli, soprattutto perché troppo irriverenti nei confronti del sistema sovietico; ma, nonostante anche la rottura col PCI, continuò ad occuparsi degli eventi internazionali: la Cina e la sua Rivoluzione Culturale fino all’”impero del male”, l’America…


Sicuramente, l’unico modo per arrivare in America – da parte de L’Unità – è stata Alberto Jacoviello; lui è stato la chiave per entrare in America. All’epoca, il comunismo era al bando negli Stati Uniti e mai nessuno avrebbe pensato di aprire un ufficio di corrispondenza estera a Washington. Probabilmente, è stato scelto per la sua libertà di pensiero: chi gli ha affidato questo compito era sicuro che avrebbe descritto quello che avrebbe visto, senza nessuna pezza sugli occhi nonostante l’appartenenza al PCI. Questa volta i tempi erano maturi ed i suoi pezzi furono pubblicati per intero, nonostante lui descrivesse l’America con occhio benevolo; ma quella era la verità e L’Unità non avrebbe fatto un secondo sbaglio con una nuova censura. A chi dice che la censura non ci fu, lo stesso Ingrao – all’epoca direttore del giornale [dal 1947 al 1957; ndr] – in un’intervista dichiarò che gli articoli di Alberto Jacoviello furono censurati o non pubblicati. In Cina, invece, ci andò con Maria Antonietta Macciocchi, la sua prima moglie: anche lì descrisse una Cina in contrapposizione con la descrizione che faceva il sistema sovietico. Allo stesso modo, ci furono polemiche: molti giornalisti, all’epoca, ritenevano che Alberto avesse “esagerato” nel descrivere la Cina in contrapposizione con l’Unione Sovietica; ma lui raccontava solo quello che vedeva.

3. Eppure, nonostante la sua vita nel mondo, decise di ritornare in Basilicata. Un ritorno alla terra, per lui figlio di braccianti. Perché questa scelta?


Nella sua mente, nel suo cuore, lui non ha mai abbandonato la Basilicata. Anche se il lavoro lo portava dall’altra parte del mondo, io ricordo sempre – e all’epoca ero poco più che ventenne –questa persona fortemente legata alla famiglia. Avevamo un vecchio comò, nella stanza da letto di mio padre e mia madre; ogni volta che aprivamo il primo cassetto, c’era sempre un oggetto nuovo (una matrioska, un cucchiaio in legno provenienti dalla Russia): ogni volta che ritornava, sia pur modestamente, aveva sempre un “pensierino” per la sua famiglia. Lo faceva col cuore. Ogni tanto, poi, tornava in queste terre: una delle sue fidanzate mi ha raccontato che si fidanzarono con un filo d’erba; lui le annodò un filo d’erba intorno al dito… questa persona, abituata ad avere rapporti con i grandi del mondo, era poi capace di simili piccoli gesti. Tornò nel suo paese che, però, trovò molto cambiato; se ne accorse pesantemente nel periodo delle elezioni parlamentari del 1992: “torno da dove son partito, un paese che non è più mio”, come recita il suo epitaffio.

4. Pare che non si fece ammaliare dal benessere paventato dalla SATA. Ed era dotato di un acuto intuito… aveva già immaginato qualcosa sul destino della piana industriale di San Nicola di Melfi?


Lui era molto preoccupato per quello che poteva accadere, compreso l’arrivo dell’inceneritore Fenice; e ne parlò con tutti i dirigenti tecnici di allora. Certo, la SATA era vista come possibilità di posti di lavoro, anche se si sperava in un altro tipo di sviluppo. Aveva timore di come si sarebbero trovati questi operai non abituati alla fabbrica; ed aveva paura di Fenice: chi poteva immaginare appieno quello che già avevamo previsto, come i danni causati dall’inceneritore. Come per tutti gli impianti industriali che vengono qui, dall’eolico al petrolio, gli impatti negativi sono sempre stati minimizzati; ma lui aveva già immaginato i possibili rischi legati al vento che da Candela soffia verso Lavello e al trasporto dei fumi verso il paese lucano. Quando si candidò nel ’92, lui davvero voleva essere al servizio di queste popolazioni, di questo territorio; in più, c’erano i suoi rapporti con i potenti del mondo, che avrebbero “amplificato” la voce del popolo lucano… ma la Basilicata perse questa grande occasione.

5. Un insigne cronista, fra i più grandi giornalisti del secolo scorso; ma, soprattutto, un indimenticabile lucano. Cosa porti con te di tuo zio?

Mi porto dentro grandissimi insegnamenti: l’amore per la Verità, la dignità, il parlare liberamente senza piaggerie verso i politici; l’attaccamento alla terra; il rispetto per gli umili, e questo da sempre. E poi, la voglia di continuare a ricordarlo e la voglia di farlo ricordare, perché rappresenta un grande patrimonio per la Basilicata: col suo ricordo, facciamo un grande dono a questa terra, specie alle nuove generazioni.

Marialaura Garripoli



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