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Recenzione de 'La natura della politica' di Raimondo Cubeddu |
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27/08/2017 | Il libro di Raimondo Cubeddu “La natura della politica” di 280 pagine, edito nel 20167dalle edizioni Cantagalli, mette in rilievo che la politica, e di conseguenza la filosofia politica, si trovano infatti nella spiacevole condizione di dover subire scelte e cambiamenti cui, al massimo, hanno soltanto contribuito, e che non tarderanno a produrre i frutti in un contesto reso imprevedibile dal crollo dei miti del Novecento e dal drastico ridimensionamento del tentativo della democrazia liberale di produrre eguaglianza tramite l’educazione. L’asimmetria della distribuzione della conoscenza finisce così per porre i consumatori di beni e di servizi in una posizione di debolezza costringendoli talora a scambiare in condizioni di sostanziale coercizione perché le regole non sono quelle prodotte da un mercato concorrenziale a cui ci si può sottrarre, bensì dalla politica. E l’acquisizione della loro conoscenza (come quella della conoscenza stessa) sta purtroppo diventando sempre più costosa ed incerta. Al posto di una società libera, o di uno ‘spontaneo ordine catallatico’, ci si ritrova in una realtà sociale sempre più caratterizzata da asimmetrie conoscitive, da vincoli formali e da un sistema di valori sempre più diversificati, sempre più tenui, e perciò sempre più fragili. Col risultato indesiderato di relegare un numero crescente di individui nella funzione di consumatori (di beni, di informazioni e di servizi) dotati di aspettative tanto estese quanto irrealistiche che si stanno rivelando non complementari, ed incontenibili democraticamente. Una dinamica che finisce per dar vita ad una massa di cittadini dotati di strumenti decisionali per esprimere socialmente e per rappresentare politicamente la propria crescente incapacità di distinguere ciò che può essere realizzato dal mercato, dalla politica, dalla tecnologia e, in generale, dalle istituzioni, da ciò che è invece irrealizzabile (se non altro nel breve periodo).
Il tutto avviene contemporaneamente al crescere della consapevolezza che le istituzioni della democrazia politica non dispongono di strumenti decisionali adeguati a governare tale situazione, e che quelli che adopera sono in realtà terribilmente lenti rispetto alla velocità del cambiamento tecnologico, alla sua diffusione, al mutamento delle aspettative e alla ricaduta sociale delle sue innovazioni. Fallito il progetto di un’educazione di massa, la democrazia politica non è riuscita a debellare l’ignoranza. Per di più, e a causa della sua inefficienza, si trova prigioniera della stupidità sociale prodotta da quel fallimento. Di qui gli interrogativi sul futuro della politica, dello stato e del mercato, il chiedersi se uno dei tre potrà sopravvivere, ed eventualmente in quale forma, alla scomparsa degli altri, e la domanda: quale ruolo può svolgere oggi la filosofia politica? Il fatto è che si è così avvezzi a identificare la teoria politica con lo stato che non soltanto non si immagina di poter fare a meno della politica, ma che si fatica anche ad immaginare la possibilità della politica senza lo stato. Si tratta comunque di una possibilità con la quale è il caso di misurarsi per via della circostanza che, mentre lo stato è una forma storica di organizzazione politica che può essere cambiata, per ora (e nonostante tutti gli sforzi dei Libertarians), la possibilità che si possa fare a meno della politica non è stata dimostrata in maniera convincente. Da decenni si assiste a rivoluzioni scientifico-tecnologiche che hanno delle evidenti implicazioni politiche, ma che non sono delle rivoluzioni politiche in senso tradizionale perché tendono sempre più a compiersi esternamente al contesto decisionale della sfera pubblica. Per di più, forse, nessuno aveva previsto che potessero avere conseguenze tanto vaste, e neanche che potessero proporsi come soluzione di problemi di cui non si aveva percezione, e che, accanto a nuovi problemi, avrebbero prodotto anche nuove ed altrettanto inaspettate opportunità.
Biagio Gugliotta
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