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Recensione:La tenerezza un film di Gianni Amelio |
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19/06/2017 | Un poeta arabo ha scritto “La felicità non è una meta da raggiungere ma una casa a cui tornare. Tornare, non andare”, sono queste le parole di Elena (Giovanna Mezzogiorno), figlia di Lorenzo (Renato Carpentieri), anziano avvocato che mentre cucina per la vicina Michela (Micaela Ramazzotti) utilizza una regola culinaria come metafora di vita “ il riso suca, assorbe..” E ancora “Nella vita tutto quello che facciamo è per farci voler bene”.
E forse qualcuno, vedendo questo film “La tenerezza” di Gianni Amelio, potrebbe ritrovarsi o interrogarsi sulle cose che davvero contano, sull’importanza di non negare le proprie fragilità e sul coraggio di fare un passo indietro, mettendo da parte l’orgoglio per offrire la propria tenerezza.
Lorenzo è un anziano avvocato appena sopravvissuto ad un infarto. Vive da solo a Napoli in una bella casa del centro, da quando la moglie è morta e ha allontanato i due figli adulti. “Ho due figli ed è successa una cosa strana: quando sono cresciuti ho smesso di amarli”. Al suo rientro dall’ospedale, Lorenzo trova sulle scale Michela, una giovane donna solare e sorridente che si è chiusa fuori casa. Lorenzo l’aiuta ad entrare da un cortile che i due appartamenti condividono. Quella condivisione degli spazi è destinata a non finire: Michela e la sua famiglia — il marito Fabio (Elio Germano ), ingegnere del Nord Italia, e i figli Bianca e Davide — entrano nella vita dell’avvocato che si affeziona a quella famiglia. Ma un evento tragico e inaspettato rivoluziona questa nuova armonia, creando forse la possibilità per recuperarne una più antica.
La tenerezza è la storia di un uomo che ha fatto della sua ambiguità una professione, scegliendo di non essere giudice nella speranza di non venire giudicato. Amelio la racconta con una solidarietà legata al passare del tempo, quando da vecchi si vorrebbe perdonare tutti e meritare il perdono di ognuno. La dimensione universale di questo suo magnifico film è quella della solitudine come segno di questi tempi in cui ognuno, anche all’interno di una famiglia, fa e pensa per sé e rifugge le responsabilità affettive, percepite come ostacoli alla propria crescita individuale e fonti costanti di preoccupazione, mai come risorse per i momenti del bisogno.
Succede così che Lorenzo ammette di non aver amato la donna che ha sposato e Fabio, il timido ingegnere navale venuto dal nord, dichiari di non aver nulla da dire ai suoi bambini.
Certo, ognuno dei protagonisti de “La tenerezza “ in qualche modo cerca la gentilezza o magari la dona. La sua storia, intrisa di banale quotidianità all’inizio, diventa a poco a poco viaggio inquieto fra le strade di una Napoli piena di aule, scale, cucine, piazze, vicoli rumorosi e camere d’ospedale. Una Napoli che rappresenta uno stato d’animo contemporaneo: l’ansia di chi sa che sta franando e non capisce bene a cosa aggrapparsi, il malessere di chi comincia a sentirsi solo in mezzo agli altri e allora impazzisce.
La tenerezza si nutre degli sguardi e del “gioco” di attori che si sono lasciati andare a una direzione pacata e non competitiva e che hanno avvicinato con pietas i personaggi che hanno avuto in dono. Tutti i personaggi si parlano, attraverso dialoghi sublimi per delicatezza e intuizione (la sceneggiatura è di Amelio e di Alberto Taraglio), senza dire mai fino in fondo ciò che pensano. Eppure ogni loro parola, ogni loro sguardo lascia intravvedere squarci di dolorosa verità, e fa trapelare quel desiderio di essere amati che è, appunto, voglia di tenerezza.
Lorenzo parla solo con suo nipote Francesco perché “ai bambini si può dire tutto”, eppure a questi adulti da bambini non è mai stato detto nient’altro che ciò che dovevano diventare, e ciò che non avrebbero mai potuto essere.
La Napoli raccontata da Amelio unisce modernità e passato, generosità e sopraffazione, è un mondo di orfani mai cresciuti costretti ad indossare una maschera sociale che non corrisponde ai loro desideri infantili, e dunque pronti a distruggere i propri giocattoli più amati, a negare persino di amarli, per non dover vivere nella paura di vederseli portare via.
Fedrico Pontiggia ha scritto de “La tenerezza “Cinema che non ha paura di dire qualcosa, qualcosa di importante, perché sa come dirlo: potere all’immagine, oltre che al dialogo. Cinema che si fa vedere mentre ci guarda. Prezioso. Dopo l’infortunio de L’intrepido (2013), Amelio è tornato a quel che sa fare meglio, ovvero inquadrare sentimenti, sensazioni e relazioni nel loro farsi persona e disfare rapporti.”
Elio Germano,di questo film ha detto “Il cinema quando è grande è un grande specchio per vedersi. Non mette in sicurezza il pubblico. Lo mette in contraddizione ed è quello che secondo me il cinema deve fare. Tutti i personaggi di questo film vivono una normalità che a un certo punto esplode. Tutti i personaggi sono più che umani e non riusciamo a giudicarli. Noi stessi siamo inseriti in questo meccanismo di nascondimento.”
E Renato Carpentieri “ Ho lavorato con Amelio nel 1990 con “Porte aperte”, il mio primo film. E’ stato una specie di master. Da allora con Amelio è cresciuto un rapporto di affetto. Il rapporto è di fiducia estrema, di abbandono. Ho fatto 40 giorni dentro questa cosa. Nei rapporti umani oggi, come Lorenzo del film, io certe cose le ho chiuse. Quando si è vecchi qualche cosa va tagliata. Oggi parliamo continuamente di sicurezza, di diffidenza… Siamo sempre più chiusi, siamo sempre più come patelle che si attaccano alle rocce e secerniamo una bile verde che ci fa staccare dalla roccia e rimaniamo soli”…
E Il regista Amelio.. “I personaggi de “La tenerezza” sono tutti una parte di me. In alcuni lati di molti personaggi ho messo tanto di me. Mi premeva raccontare questo sentimento forte che una figlia ha per il padre e quello di Lorenzo che rivede nei giovani un sentimento perduto della sua giovinezza perduta.
Bella 18 giugno 2016 Mario Coviello
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