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il 'Moro' di Pesce e Imposimato al Crob di Rionero

26/05/2017

Cinquantacinque giorni di prigionia, che – come sappiamo – si conclusero col più tragico degli epiloghi; ma, a quasi quarant’anni da quel 09 Maggio 1978, molte domande non hanno ancora udito risposta. Una cosa è certa: “qualcuno è morto al momento giusto”, nella citazione di Elias Canetti che apre L’affaire Moro di Leonardo Sciascia. Ma, in questa ferita non ancora rimarginatasi, la parte nobile è che gli ultimi giorni dello storico leader della Democrazia Cristiana, Aldo Moro – colui che voleva rivoluzionare la politica italiana, sono narrati per mezzo del teatro; e per di più in un luogo tanto inconsueto quanto importante: all’IRCCS-CROB di Rionero in Vulture – presso l’auditorium Enzo Cervellino, alla presenza del Direttore Generale dr. Giuseppe Cugno e del Direttore Amministrativo dr. Giovanni Chiarelli – Ulderico Pesce ha portato il suo “Moro: i 55 giorni che cambiarono l’Italia”. Un vero e proprio progetto socio-culturale, quello di Pesce e dell’IRCCS-CROB, che intende spalancare le porte dell’ospedale per far entrare l’arte del teatro come nuova terapia del sollievo; il teatro come strumento di alleviamento e conforto per i pazienti e le loro famiglie, ma anche per il personale dipendente. Scritto a quattro mani dal giudice Ferdinando Imposimato – che prese in carico le indagini solo il 18 Maggio 1978 e fu titolare dei primi tre processi sul caso – e da Ulderico Pesce – che lo dirige e lo interpreta – l’incalzante racconto parte da quel 16 Marzo 1978, giorno in cui Moro fu rapito e furono uccisi gli uomini della sua scorta. E la voce narrante è quella del quindicenne Ciro Iozzino, fratello di Raffaele; prima di morire, allora venticinquenne, Raffaele fu il solo membro della scorta che riuscì a sparare due colpi di pistola contro i terroristi: quella fatidica mattina, restato a casa per una febbre, Ciro guarda in televisione l’immagine di un lenzuolo bianco sull’asfalto, dal quale fuoriesce soltanto un braccio con al polso un orologio in acciaio; l’orologio era quello che il nonno aveva regalato a Raffaele. Lo spettacolo parte così ed è un pugno nello stomaco la vicenda Moro, che ancora oggi – a distanza di trentanove anni – lascia sempre più amareggiati. Perché la morte di Aldo Moro fu decisa, fu scritta a tavolino; perché Moro “non l’hanno ucciso solo le Brigate Rosse, Moro e i ragazzi della scorta furono uccisi anche dallo Stato”. E Moro sapeva benissimo chi erano i mandanti; li conosceva perfettamente, quotidianamente, tanto da dedicare loro una delle ultime lettere scritte dal carcere: “il mio sangue ricadrà su di voi, sul partito, sul Paese”; il partito, il Paese degli Andreotti e dei Cossiga, dei servizi segreti e della massoneria. Un teatro che entra nelle coscienze e che vuole essere mezzo in un percorso di umanizzazione di un ospedale oncologico; il teatro che vuole essere un momento di condivisione, , di partecipazione, di sollievo e gioia, allontanando seppur temporaneamente dalla sofferenza. Ed ecco la volontà di Ulderico Pesce di entrare in quei luoghi dove s’è più deboli, ma dove vi è una maggiore riflessione: “l’idea è quella di fare un giro per gli ospedale della mia terra – dice Ulderico Pesce –. La Basilicata vive un momento particolare, le malattie sono in aumento; ed il mio gratuito gesto è per dire che sono lucano e sono affianco a queste persone, alla loro sofferenza. Col passare del tempo, mi sono reso conto che – al di là dello spettacolo – ci sono cose molto più importanti da affrontare nella propria esistenza; oggi, il CROB è solo l’inizio di una nuova vita professionale che voglio intraprendere negli ospedali, nei carceri della mia terra. Racconto Moro perché ancora non si sa la verità, nonostante sono trentanove anni che la cerchiamo; e chi oggi viene a vedere questo spettacolo, chi non vive troppo bene, è indubbiamente una persona più ‘attenta’, una persona che ha maggiori momenti di riflessione”. L’arte del teatro, quindi, come catarsi; come liberazione. “Voglio coltivare – continua Pesce – tutto ciò che è ‘minore’, che è sofferenza; tutto ciò che, generalmente, non è luogo di spettacolo e bellezza, ma dove la bellezza è una dimensione interiore”.

Marialaura Garripoli



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