Sabato 19 novembre 2016, alle ore 10.30, a Castronuovo Sant’Andrea, nelle sale del MIG. Museo Internazionale della Grafica - Biblioteca Comunale “Alessandro Appella” - Atelier “Guido Strazza”, nel giorno in cui veniva alla luce, un secolo fa, Albino Pierro, una conversazione del suo amico di una vita, Giuseppe Appella, renderà omaggio alla sua poesia cresciuta, tra l’altro, nel rapporto con gli artisti.
Pierro nasceva, infatti, il 19 novembre 1916, a Tursi, in provincia di Matera, terzogenito di Giuseppe Salvatore, possidente terriero, e di Margherita Ottomano, maestra elementare, morta poco dopo la sua nascita. Allevato da due sorelle nubili del padre, le zie Assunta e Giuditta, più volte ricordate nelle poesie in lingua e in dialetto, dopo le elementari proseguì gli studi tra Taranto, Salerno, Sulmona, Fusine, presso Tarvisio, Novara (dove studiò pianoforte rivelando un apprezzabile talento musicale, in seguito non coltivato), Lanuvio e, finalmente, Roma dove riprese gli studi conseguendo da privatista il diploma magistrale e successivamente, nel 1944, la laurea in pedagogia discutendo una tesi su sant’Agostino. È facile intuire il temperamento ribelle di Albino, la sua insofferenza per la routine scolastica, la sua passione per le letture, nei primi tempi intense quanto disordinate, che lo portarono a collaborare a Il Balilla, con racconti e favole per bambini, e a La Rassegna nazionale, con le sue prime poesie in lingua. Per anni professore di filosofia nelle scuole secondarie e poi ispettore ministeriale, pubblica il suo primo libro, Liriche, nel 1946 e l’ultimo, Nun c’è pizze di munne (Non c’è angolo della terra) nel 1992. Muore a Roma il 23 marzo 1995.
Nonostante la lunga stagione di poeta in lingua, Pierro è conosciuto, in Italia e all’estero, soprattutto come poeta dialettale. La conversione-folgorazione avvenne il 23 settembre 1959, nel corso di un viaggio da Tursi a Roma, con la poesia Prima di parte (Prima di partire), poi confluita nella raccolta ’A terra d’u ricorde (La terra del ricordo, Roma 1960). Sono gli anni di Il mio villaggio (Bologna 1959), di Agavi e sassi (Roma 1960), le due raccolte in lingua che facevano seguito ad altre sei, da Liriche (Roma 1946) a Poesie (Roma 1958).
Come avvenne questo passaggio? Con un mutamento radicale o con una più comprensibile continuità? La critica, in questi anni, soprattutto i filologi, Gianfranco Contini in primis, ha analizzato le modalità del passaggio da un codice linguistico all’altro, e come il dialetto arcaico di Tursi, sperimentato nei suoi molteplici registri, sia diventato, attraverso Pierro, una raffinata lingua poetica, tesa ad indagare nella memoria del passato e nell’attualità dell’esistenza, con linee tematiche che vanno dal paese-paesaggio interiore all’amore, alle “cose” di ogni giorno, tutte confluite nelle raccolte Famme dorme, Lasciami dormire, Milano 1971; Curtelle a lu sóue, Coltelli al sole, Bari 1973; Sti mascre, Queste maschere, Roma 1980; Com’agghi’ ’a fè?, Come debbo fare?, Milano 1986.
La cultura poetica di Pierro, tuttavia, non è solo letteraria (lirici greci e poeti latini, Lucrezio in particolare, provenzali, stilnovisti, Dante, romantici tedeschi e simbolisti francesi, i Salmi, Foscolo e Leopardi, Pascoli e d’Annunzio, i crepuscolari, Ungaretti e Quasimodo), ma anche artistica (per guardare solo ai più vicini: Courbet e Munch, gli espressionisti tedeschi, Levi e Maccari, Fazzini e Greco, Stradone e Ciarrocchi, Dragutescu e Vistoli, Quaglia e Purificato, Fraschetti e Consolazione, Guerricchio e Poll, Lange e Silvano Scheiwiller). Gli artisti, in molti casi veri e propri compagni di strada, lo aiutano a leggere il paesaggio lucano rappresentato dal vento, la rupe, l’argilla, le stelle, la parete che crolla, i fossati, l’erba che nasce, la luce, il buio, il dolore, lo smarrimento, la morte.
La conversazione di Giuseppe Appella, supportata da una precisa scelta di immagini, servirà ad aprire nuovi spiragli su una poesia che ha segnato le ricerche espressive del secolo appena trascorso.
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