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Recensione:“Ogni mattina a Jenin” ,un romanzo di Susan Abulhawa

21/09/2016

“La nostra rabbia è un furore che gli occidentali non possono capire. La nostra tristezza fa piangere le pietre.” Ed è proprio così. La rabbia e la tristezza sono quelle del popolo palestinese perché è la loro storia che il romanzo “ Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawana racconta. E anch’io ho pianto, sì ho pianto molto, leggendo la storia triste e dolcissima di Amal, la protagonista di questo libro insieme alla sua famiglia, il padre Hassan, la madre Dalia e i suoi fratelli Yussef e Isma’il. Quest’ultimo viene rapito in fasce da un israeliano che non ha figli e diventa scopo di vita della madre adottiva Jolanta, unica scampata della sua famiglia da un campo di concentramento nazista. Il viso di Jolanta “si aprì come un fiore a primavera alla vista di questo “dono inaspettato”. Da grande Isma’il, divenuto il giudeo David, farà i conti con le sue origini, il suo sangue e la vita vissuta come combattente ebreo contro i palestinesi. Ancora più tragico il destino di Yussef che così la sorella Amal descrive. “ Mio fratello era un ragazzo che camminava per le colline di Tulkarem e beveva dalle sorgenti di Qalqiliya… si nutriva dal petto di una stirpe antica nella terra dei suoi progenitori…Mio fratello è stato ripudiato, incarcerato, torturato, umiliato ed esiliato perché voleva vivere la sua vita ed ereditare il patrimonio lasciatogli dalla storia. Aveva dato il suo cuore ad una sola donna, e il suo dolore per lei ha fatto tremare la terra e versato il sangue di quanti ci si trovavano…”.
Il romanzo racconta l’amicizia di Amal con Huda, due bambine che crescono insieme fino a dodici anni e si ritroveranno solo dopo molti anni spose e madri. Racconta di Amal e del suo difficile rapporto con la figlia Sara.
Questo libro racconta la Palestina, Israele e il Libano, terre insanguinate e le confronta con l’America, le sue opportunità e le sue miserie.
Nel corso di questi anni avevo sentito parlare del campo profughi di Jenin, degli eccidi nei campi di Sabra e Chatila, avevo spiegato ai miei alunni la tragedia del popolo palestinese, distrutto degli ebrei dal 1948 in poi e della sua strenua resistenza.”Ogni giorno a Jenin” racconta questa tragedia con le voci dei protagonisti, dal di dentro, e mi ha fatto capire cosa significa nascere e crescere in un campo profughi,senza più una terra, senza alcun diritto, e lottare strenuamente per avere un futuro, una speranza.
“Ogni mattina a Jenin” prende il lettore perché racconta l’amore di questo popolo per la sua terra e i suoi frutti . Del popolo palestinese descrive le tradizioni,le canzoni, i riti antichi della vita e della morte. Racconta che “ nel mondo arabo la gratitudine è un linguaggio….” Che Dio benedica le mani che mi porgono questo dono…Che il Signore ti doni una lunga vita…” espressioni così lontane dal semplice “grazie “ di noi occidentali. Questo romanzo fa comprendere la necessità di raccontare, per testimoniare la verità: “ I palestinesi hanno pagato il prezzo dell’olocausto degli ebrei”, per combattere le verità di comodo, la capacità che noi occidentali abbiamo di assuefazione alla cancellazione dei diritti delle minoranze. E proprio stamattina Obama ha inaugurato l’Assemblea delle Nazioni Unite parlando delle ultime stragi ad Aleppo. Questo romanzo ci aiuta a capire perché e come nasce il terrorismo: “la sopportazione diventò una caratteristica della comunità di profughi. Ma il prezzo che pagarono fu la perdita della loro dolce vulnerabilità. Impararono ad esaltare il martirio.Solo il martirio offriva la libertà. Solo nella morte potevano essere invulnerabili ad Israele.” E di Sabra e Chatila ricordiamo i piccoli di sei, otto, dodici anni che lanciavano pietre contro i carri armati israeliani e sono stati imprigionati,torturati, uccisi.
Yuseff, Amal leggono, studiano perché il loro padre Hassan che li amava “come il mare e tutti i suoi pesci,come il cielo e tutti i suoi uccelli,come la terra e tutti i suoli alberi..” avevo letto loro la storia del popolo palestinese.
Hassan all’alba prendeva in braccio la figlia assonnata e le raccontava storie che Amal non ha mai dimenticato e sono rimaste in lei con l’odore del tabacco della pipa del padre che sapeva di castagno e miele. “ Nasciamo tutti possedendo già i tesori più grandi che avremo nella vita. Uno di questi è la tua mente, un altro è il tuo cuore. E gli strumenti indispensabili di queste ricchezze sono il tempo e la salute….. Io ho cercato di usare la mente e il cuore per tenere il nostro popolo legato alla propria storia, perché non diventassimo creature senza memoria che vivono arbitrariamente in balia dell’ingiustizia.” Leggete questo romanzo di 379 pagine che ha la sua sintesi più efficace a pagina 337..” Nell’ufficio di Ari eravamo tre generazioni sospinte dalla forza ostinata di una storia senza riscatto, truffata dal destino, ma riunita in quel momento per essere raccontata..” E con Susan Abulhawana concludiamo “E l’amore non mi sarà mai strappato dalle vene.”
Secondo la scrittrice ogni scrittore palestinese quando scrive, a prescindere da ciò che scrive, fa un atto di resistenza perché fa parte di un popolo a cui hanno cancellato il proprio posto sulle mappe; così qualsiasi espressione artistica diventa atto politico. Con questo libro Susan Abulhawa, palestinese che vive negli Stati Uniti, ci trasmette un grande valore che appartiene al popolo palestinese: il senso d’identità.
Susan Abulhawa è nata da una famiglia palestinese in fuga dopo “La guerra dei Sei Giorni” e ha vissuto i suoi primi anni in un orfanotrofio a Gerusalemme. Adolescente, si è trasferita negli Stati Uniti dove si è laureata in Scienze Biomediche e ha avuto una brillante carriera. Vive in Pennsylvania. Autrice di numerosi saggi sulla Palestina, ha fondato l’associazione Playgrounds for Palestine che si occupa dei bambini dei territori occupati.
Bella 21 settembre 2016 Mario Coviello




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