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I fiori del male

10/12/2011

Una volta c’era Dicembre: dai tetti imbiancati, dalle cime innevate, dai comignoli fumanti, dai lezzi vaporosi dei liquori consumati nei bar; dal vento tagliente che spazzava i vicoli. Il mese del focolare, della carne messa ad arrostire, del crepitìo della brace nel silenzio dalla sera. Del paiolo gorgogliante; del fuoco scoppiettante, premonitore del tempo attraverso la vivida voce delle faville sprigionate dal ceppo ardente. Dicembre col ciocco di ginepro che cede calore e profumo alla dimora, e aroma ai cibi. Dicembre dai silenzi profondi nelle vie, al calar della sera, quando l’accecante candore dei cristalli teneva stipati in casa uomini e donne, vecchi e bambini, intorno al desco imbandito con amore e ritualità. Era il Dicembre delle mani screpolate, dei volti bruciati dal sole e dal gelo, delle fumate d’aria che fuoriuscivano dai corpi possenti, ben saldi sulla terra ancora amica. Dei funerali al suono delle campane; della luce fioca delle candele che ardevano piano, spandendo l’odore dolciastro della cera. Era il tempo delle risa gioviali, del calore umano, delle parole che giungevano ai cuori nelle notti senza luce. Era la grande ombra dei misteri: giorni troppo brevi per destare lo spirito alla luce di un sole nascosto; notti troppo lunghe per non udire le voci lontane nei racconti; troppo fredde ed impietose per forzare l’uscio alla via gelata. Il latrato dei cani diffondeva nell’aere immoto, fissato in statuaria bellezza dal gelo, un lungo gemito di speranza. Gli uomini mettevano a riposo i loro corpi, le donne, fresche nella loro corpulenta bellezza, si mostravano piene di premure ai mariti e ai figli. I vecchi, sempre seduti al dolce tepore del fuoco godevano della vita presente e di quella futura, guardando i nipotini giocare. Ma era soprattutto il Dicembre del mistero, della speranza, della bontà; della attesa! Il mese dell’annunciazione, quando ancora l’Angelo parlava la lingua dell’anima. Tutto quanto era permeato dalla fede, dalla ritualità religiosa, dalla Parola. Si gioiva soprattutto per la nascita del Salvatore: i piccoli nati venivano segnati con questo nome. L’alleluia univa i cuori all’unisono allo scoccar della mezzanotte: è nato, è nato il Salvatore, annunciava il coro, e l’allegria e la festa aleggiavano sull’intero popolo.
Tutto è ormai perso; smarrito per sempre. Forse non c’è più la neve di una volta? Forse la TV parla e urla troppo? Forse le strade sono troppo illuminate e piene di vetrine e quindi alcun mistero può celarsi nel buio? Nulla di tutto questo: semplicemente si tratta del vuoto lasciato dal Cristo che non c’è più. Lo si può dire per certo, scandalizzando forse coloro che amano scandalizzarsi. Sollevando l’indignazione dei mistificatori. Creando sgomento negli incerti ma, di fatto, Cristo ci ha lasciati. Si è allontanato da noi a grandi passi, adirato. Nessuno gioisce più per la Sua venuta. Nessuno Lo onora con l’esempio della santità. Nessuno Lo teme al punto di rinunciare per esso al vizio o all’ambizione. Pare che questa nostra società moderna, abbia trasformato Gesù in un bene di consumo. E allora ecco che con il Figlio di Dio è andata via anche la neve, il focolare, l’anziano, la poesia della vita. L’uomo moderno ha bevuto l’ infuso dei fiori del male: “a quei meravigliosi tempi quando rigogliosa fiorì la teologia con energia, raccontano che un dottor, fra i più grandi, - dopo avere sforzato i cuori indifferenti; averli rimescolati nelle loro nere profondità; dopo aver superato strani sentieri alle celesti glorie, che lui stesso ignorava, a cui soltanto puri Spiriti forse eran venuti, - come chi sale troppo in alto, preso dal panico, esclamò, esaltato da un orgoglio satanico: “Gesù, o piccolo Gesù, t’ho posto in alto! Ma se attaccarti nel tuo lato debole voluto avessi, l’ignominia tua sarebbe stata pari alla tua gloria, e tu saresti un feto derisorio!...” L’orgoglio dell’uomo di oggi è pari a quello del “dottor, fa i più grandi”. Affidiamo allora il nostro monito ai versi di Baudelaire che concludono la poesia: “…Sùbito la ragione lo lasciò. D’un nero velo si coprì la fiamma di quel sole; irruppe tutto il caos in quella intelligenza, un tempo vivo tempio, in cui tutto era ordine e opulenza, e sotto i cui soffitti tanto fasto aveva scintillato. In lui il silenzio prese dimora con la notte, come in una cella la cui chiave è stata persa. Da allora egli fu simile alle bestie di strada, e quando andava ciecamente per le campagne, senza riconoscere le estati dagli inverni, sporco, inutile, brutto come una cosa logorata, zimbello era, e la gioia dei ragazzi”.

Antonio Salerno



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