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Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli. Recensione di Mario Coviello |
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22/01/2016 | “Il peso della storia è secondo solo a quello della verità”. Così è stato presentato alla Casa del Cinema di Roma, Il Labirinto del Silenzio, del giovane regista italiano Giulio Ricciarelli , tra i candidati all’Oscar per il miglior film in lingua straniera, che dal 14 gennaio si proietta nei cinema italiani. E’ un film che vi consiglio di vedere e far vedere per prepararci alla “ Giornata della memoria” .In questi primi giorni del 2016 che sono velati di tristezza per gli sbarchi dei profughi che continuano a morire sulle coste dell’Europa, per il terrorismo cieco e crudele che massacra anche i bambini, per la paura che aleggia ,ci toglie la speranza e ci fa diventare diffidenti, razzisti, “cattivi” , “ Il labirinto del silenzio” ci invita a non restare indifferenti, in silenzio.
Nel 1958, il giovane magistrato tedesco Johann Radmann viene a sapere, per puro caso, che un ex ufficiale delle SS, responsabile di atti efferati, lavora come docente in un ginnasio della sua città. È l’inizio di un’indagine travagliata e difficile. "Questo è un labirinto, non si perda" dice il pm Bauer al giovane procuratore , determinato a portare alla sbarra gli aguzzini di Auschwitz . Chi ha creato questo labirinto? Per quale motivo? Se in Germania nel '58 si fosse chiesto cos'era Auschwitz, nessuno avrebbe risposto. Tutti,dopo la ricostruzione del dopoguerra e la ripresa economica che stava portando il benessere,volevano dimenticare. Scavare negli archivi del Terzo Reich significò andare a toccare con mano la colossale e sfuggente estensione di un fenomeno – l’adesione al nazismo – in cui non è sempre facile tracciare un confine tra il conformismo di facciata dei tanti, semplici iscritti al partito e la partecipazione attiva e convinta al suo sistema ideologico.
Ed il protagonista, durante il film, nel suo difficile cammino verso la verità e la giustizia pronuncia queste frasi
- "Voglio che ogni ragazzo tedesco si chieda se suo padre fosse un nazista"
- "Mengele è Auschwitz, perché Mengele è come noi, ha una famiglia, è colto, ama l'opera... è quasi... simpatico"
- "Se io fossi stato qui [ad Auschwitz], non so come mi sarei comportato"
La questione morale finirà per dover cedere il passo alla necessità giuridica di condannare gli assassini: un sigillo posto su un passato da superare, ed una consacrazione di uno stato diritto. Il film ha il merito di raccontare un pezzo di storia, poco conosciuta, che mostra le difficoltà di arrivare a quel processo che, nel '63, porto' in aula 211 sopravvissuti a Auschwitz e 19 Ss e una nazione alla coscienza di un terribile recente passato.
L'opera di Ricciarelli, milanese di nascita e tedesco d'adozione, mette in campo tutti i temi legati alla Shoah: la responsabilità di chi partecipo' a quell'orrore, diviso tra coscienza e dovere di soldato, le suggestioni del revisionismo storico, la banalità del male di Hanna Arendt e soprattutto la volontà di un paese che non vuole davvero sapere la verità.
''Fritz Bauer - ha spiegato il regista - è un po' un eroe dimenticato. Era il procuratore generale e, non a caso, affido' la lista dei responsabili a due giovani colleghi perche' sicuramente non coinvolti nel nazismo''.
Sulla responsabilità di quell'eccidio, spiega ancora Ricciarelli:''non e' importante quando si e' nati, prima o dopo Auschwitz. Anche se non si e' colpevoli resta comunque la responsabilità di quello che e' successo allora''.
Nel film non si salva nessuno: innanzitutto i tedeschi, che hanno colpevolmente chiuso gli occhi e si sono gettati in una Germania protesa verso il futuro e il benessere; poi gli Alleati, che hanno protetto, fatto espatriare o reinserito nella pubblica amministrazione grandi nomi e pezzi grossi del governo nazista, in barba a un processo di Norimberga forse utile solo a eliminare chi non sarebbe servito; e infine tutti coloro che hanno collaborato alla tessitura di questo velo con cui coprire gli occhi di uno stato appena nato.
La storia funziona, il ritmo prende lo spettatore, le interpretazioni sono convincenti e le scelte registiche, insieme alla fotografia, danno ancora più forza ai personaggi, immersi in una Francoforte quadrata, austera e dal sapore anni sessanta. Una Francoforte in cui tutti hanno un legame col regime, un motivo per tenere immutato quel silenzio, anche i più insospettabili.
“ Il labirinto del silenzio” racconta la necessità di alzare quel sipario, di fare i conti col passato, perché il silenzio non aiuta nessuno: senza analisi, senza informazione, senza consapevolezza non si può comprendere e non si può porre rimedio. Al centro del racconto si colloca l’idea che uno sguardo universale sia l’unico vero presupposto di una società civile, in cui nessun individuo e nessun traguardo si ponga al di sopra del bene comune.
“ Il labirinto del silenzio” ci può aiutare forse a non chiudere gli occhi sui drammi del nostro tempo e spingerci a fare ciascuno la propria parte.
Bella 21 gennaio 2016 Mario Coviello
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