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Il sapore del sangue

23/10/2011

La riflessione sulla natura dell’uomo ha origini antiche e implicazioni di enorme portata in quanto se si accertasse che gli esseri umani altro non sono che animali che hanno sviluppato una determinata attitudine, quella intellettiva, e non creature privilegiate della creazione, tutto ciò che riguarda le religioni e quindi gli ordinamenti che tengono conto del fattore religioso, verrebbero inevitabilmente a cadere. Ma d’altro canto se l’uomo fosse una creatura fatta ad immagine e somiglianza di un Dio infinitamente saggio e onnisciente dovrebbe almeno un poco allontanarsi da comportamenti che sono così tipici del mondo animale. Difronte ad orrori quale quello che ci ha visti spettatori nei giorni scorsi, il linciaggio in diretta tv del leader libico Muammar Gheddafi, una riflessione sul tema diviene quasi d’obbligo. A stupire non sono solamente le immagini disgustose di un assassinio a sangue freddo ma l’indifferenza che ne è seguita da parte del così detto mondo intellettuale e politico occidentale. Per quanto riguarda casa nostra va riconosciuto un merito particolare alla sensibilità umana, ma non è una novità, di Corradino Mineo che si conferma uno dei professionisti più seri del giornalismo italiano ed europeo. Che il leader libico dovesse subire una condanna era giusto e scontato ma abbiamo imparato dalla nostra antichissima cultura del diritto che l’amministrazione della giustizia dovrebbe passare, quando possibile, per un tribunale. Non una parola di condanna del gesto. Non una parola di biasimo per l’oltraggio alle regole morali prima e civili poi, si è levata dal coro. Forse perché certe Nazioni, che si scandalizzano per una scappatella amorosa di qualche politico, hanno sempre considerato l’assassinio politico come un peccatuccio tollerabile. Questa volta, spingendosi ancora più in là, sono arrivati a legittimare persino un vero e proprio linciaggio. A queste Nazioni avanzate e a questi leader politici ed intellettuali tanto insensibili noi mostriamo due pagine bellissime di due diversi autori, Jeck London e Paul Vialar, che descrivono in modo mirabile gli istinti e i comportamenti che hanno portato all’assassinio del dittatore libico. Come sempre invitiamo il lettore alla lettura integrale dei due romanzi per gustarne la bellezza. Dal canto nostro ci limiteremo ad offrirne un piccolo assaggio che sia di incentivo: “quel piccolo furto rivelò in Buck l’oscuro desiderio di lottare ma soprattutto quella prova segnava il decadere e il frantumarsi della sua moralità, inutile e vana nella spietata lotta per l’esistenza. Nel Sud protetto dalle leggi della società civile e dall’affetto dei padroni era stata una cosa bellissima rispettare la proprietà altrui; nel Nord invece, sotto la legge del randello e delle zanne, chiunque avesse tentato di rispettare tali principi… non sarebbe mai riuscito a difendersi dai più forti. Quand’era nel mondo civile sarebbe morto per un’esigenza di ordine morale. Ma la completa mancanza di ogni suo senso di civiltà era messa ora in evidenza nell’abilità che poneva nel sottrarsi alla difesa di una esigenza di ordine morale allo scopo di assicurare la salvezza della propria pelle”. Così viene descritto il mutamento del cane Buck ne “ il richiamo della foresta”. Come per il cane del giudice Miller anche i “valori” ed il “diritto” dei paesi occidentali, quando varcano i confini dei loro Stati, si lasciano dietro ogni vestigia di umanità e vanno a combattere senza regole per la sopravvivenza. Il tipo di sopravvivenza per cui certe guerre vengono iniziate e combattute non è però quella dell’individuo bensì quella dell’opulenza e del benessere: per dirla con le parole di London “ Buk ritornava un animale selvaggio, perché gli uomini avevano scoperto filoni di metallo giallo nel Nord”. Di questa opulenza e di questo benessere beneficiamo tutti e quindi sarebbe infantile ed assurdo mistificare la realtà, lasciamo questo compito a certi uomini della sinistra e dei movimenti che ingrassano nel formaggio di una società capitalistica lamentandosi tra un boccone e l’altro. Ma, a quei principi di giustizia e di moralità che gli esseri umani hanno creato, conservato e custodito in millenni di evoluzione dei costumi, dovrebbe essere per noi tutti impossibile rinunciare soprattutto quando il ventre è al sicuro e una guerra è ormai vinta. Ecco perché, se l’uomo è una creatura fatta a immagine di Dio, capace di farsi guidare dai valori della giustizia e non dall’istinto bestiale, quello che è successo avrebbe dovuto essere da tutti definito inutile e bestiale e per questo condannato e perseguito. Ora però, dovendo rendere conto degli spazi di testata, passiamo dalla soddisfatta accettazione del linciaggio da parte delle tante brave e timorate persone dell’occidente civilizzato all’analisi della guerra che ha portato a questo epilogo. Lo facciamo a modo nostro, con due immagini fornite dai due autori che da sole potranno rispondere alla domanda che ci siamo posti all’inizio: l’uomo è o non è un semplice animale? La prima scena descrive un duello tra Buck e il suo nemico Spitz. I due cani si battono nel fitto della foresta, di notte, circondati da decine di huskies inselvatichiti pronti a finire il perdente: “ quei cani erano come lupi male addomesticati che adesso si stringevano in cerchio, in attesa, attorno ai due avversari. Stavano silenziosi, con gli occhi scintillanti, soffiando il fiato caldo dalle fauci dischiuse. Buck sentì che la scena non era nuova e inusitata; sempre era stato così, dalle origini del mondo: era l’eterna vicenda delle cose e delle creature che si ripeteva.” Anche Gheddafi deve aver provato quella stessa sensazione quando si è trovato di fronte quel genere di persone che lo hanno poi pubblicamente giustiziato. La lotta comincia e i due protagonisti si battono: la resa dei conti tra i due cani nella foresta volge verso il suo tragico epilogo:” i denti d’acciaio di Buck si serrarono sulla gamba anteriore sinistra del cane bianco. S’udì lo scricchiolio dell’osso spezzato; il colpito si difese reggendosi sulle altre tre zampe. Dopo altre varie finte mosse Buck riuscì a spezzargli anche la zampa destra. Nonostante il dolore Spitz combattè disperatamente per reggersi in piedi. Vedeva il cerchio silenzioso, gli occhi fiammeggianti, le lingue penzoloni e i fiati visibili che si alzavano nell’aria: la scena era identica a quella che aveva visto tante volte nel passato. Ma allora era stato o vincitore o spettatore: questa volta il vinto era lui. Comprese che era perduto. Buck manovrò abilmente per il colpo finale. Il cerchio si fece più stretto; sentì il respiro caldo degli altri cani ai suoi fianchi . li vedeva dietro e intorno a Spitz, pronti a lanciarsi, gli occhi fissi su di lui. Seguì una pausa. Gli animali sembravano di pietra. Soltanto Spitz, barcollante, tremò col pelo arruffato e ringhiò ferocemente, quasi volesse sfidare la morte che sentiva prossima. L’ultimo balzo di Buck segnò la caduta di Spitz e la vitoria del nuovo capo. Il vinto scomparve sotto la massa dei cani, impazziti sotto la luna.”. Questa la legge delle belve, descritta da Jeck London nel suo racconto. Questo quanto accaduto al generale Muammar Gheddafi il 21/10/2011. Ora proponiamo un’altra pagina, altrettanto bella e altrettanto cruda che raffigura molto bene cos’è stata questa guerra per gli Stati Uniti e per l’alleanza: ne più e ne meno di una caccia come quella narrata da Paul Vialar, nel romanzo intitolato “la grande Muta”. L’analogia risulta particolarmente pertinente in quanto descrive una caccia nella quale l’uomo non uccide direttamente ma occupa il ruolo di regista servendosi di esseri inferiori, cavalli e cani, per raggiungere lo scopo. Abbiamo scelto il passo che racconta la caccia al cervo più bello della foresta al quale era stato dato il nome del “carbonaio”, dal suo manto scuro. La caccia viene condotta, come abbiamo detto, senza armi, ma con una splendida muta di cani che dopo aver individuato il cervo prima lo sfinisce e poi lo abbatte sbranandolo: “era uno splendido animale, un cervo di nove anni che raggiungeva il branco sol nel periodo della fregola: era il signore della foresta. Non appena balzato in piedi, il grande cervo nero seppe che stava giocando la vita, che il suo momento era giunto. Quante volte aveva visto altri maschi, le cui corna ornavano ormai la sala di caccia di Lambrefault, partire in preda al terrore, accompagnati dalla musica dei corni e della muta! Allora si era accontentato di allontanarsi trotterellando allegro, ergendo i palchi, convinto, dopo tanti anni di non essere un animale cui si potesse dare la caccia. Oggi, Barault, che l’aveva fatto alzare dal suo giaciglio, gli aveva quasi morsicato una coscia. Lui era scattato d’un balzo, mentre ancor masticava l’ultima foglia bassa del suo rifugio. Le sue ginocchia avevano scavato due profonde buche rotonde nella terra ammollita dal calore del corpo, e ora fuggiva a testa bassa, allungando la falcata, lucido di mente e tuttavia gonfio il cuore di terrore tremendo. Sapeva tutte le scaltrezze e tutte le mise in opera… Alle sue spalle, la fronte aggrottata, lo spirito teso, ora a tutta velocità ora a piccola andatura, uomini e cani scioglievano il viluppo della sua traccia. Da una parte il cervo, pura invenzione e malizia, trovava nella testa e nelle gambe infinite risorse. No, non potevano essere terminate per lui le lunghe notti di pascolo quando dagli alberi la linfa scende nel sangue come un liquore, né le settimane di fregola quando le cervie rispondono al grido e gli altri maschi, dominati, si appartano dopo il cozzo delle due fronti ramose, e le reni delle femmine piegano sotto il peso eccessivo del pettorale massiccio…smarrito, ansimante, tallonato, non avendo potuto sfuggire nel piano troppo vasto, tornava senza coscienza nella foresta dove per anni aveva conosciuto la pace. La finta, ora: risorsa ultima e indegna d’un grande maschio, a meno ch’egli non sia agli estremi! Ma no, neanche la finta stornava i cani dalla traccia: essi guadagnavano anzi tutto il tempo perduto…e sempre alle spalle, ancor più vicina, la grande voce di cani dai lunghi denti che la carne ha sgrassati e il sangue ha politi. La vicenda durò otto ore, sino al crepuscolo. Già assai prima però il cervo aveva cessato di sperare. Si sapeva vinto quando ancora gli uomini ignoravano ch’egli fosse perduto, ma lottò fino all’esaurimento delle forze, fece fronte ai cani quattro volte di seguito, li tenne in rispetto sventrando Vigilante e scucendo Combault, poi partì fino al momento in cui si arrestò per l’ultima volta, morto in piedi come un eroe. Era sopraggiunta la notte e oramai si distingueva solo la sua forma smisurata, mirabile come una statua di bronzo, che i cani non riuscivano a tirare fino a terra. Mentre Mathieu suonava la morte, Cosimo, arrestato il cavallo, si asciugava la fronte, riprendeva fiato. Il compito era assolto, l’impresa portata a buon fine: il principe sarebbe stato contento.”. Perché tutto questo? La nostra risposta è perché siamo animali e ci comportiamo come tali, a dispetto di tutti coloro che siedono vestiti di nero, ordinati e composti, nei banchi delle chiese; che sfilano con le mitre, che si indignano se un cane finisce sotto un’auto, che affollano i lussuosi palazzi della politica e della diplomazia. Nessun rimpianto per il cervo, nessun rimorso per l’uccisione della creatura. C’è solo il sudore da asciugare. Le spese di guerra cesseranno, il bottino sarà spartito: la preda è stata abbattuta, la caccia e finita e si torna a casa. I cani che hanno leccato il sangue caldo zampillante dal corpo morente tornano ai canili e riceveranno la loro ciotola di zuppa calda. Tutti sono contenti secondo le regole della caccia o della foresta ma la domanda rimane: siamo uomini o bestie? Si può rispondere solo rendendo conto degi atti compiuti.

Antonio Salerno



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