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Leonardo Sinisgalli – Elogio dell'entropia / Carte assorbenti 1942-1976 |
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19/12/2014 | “C'è un'arte che accoglie e un'arte che esclude»: così Leonardo Sinisgalli aveva annotato nelle pagine inquiete di Horror vacui (1945) e l’arte che il poeta ha intessuto in queste rare carte colorate, realizzate con furia e pazienza nell’arco di oltre trent’anni, è, non c’è dubbio, un’arte che accoglie. Accoglie le occasioni del tempo, momenti di vissuto, tracce di inchiostro e, come pure accadeva nei fogli, disegnati e dipinti, da Montale, residui, volubili, di materiale organico. Accoglie e mostra, soprattutto, il corpo a corpo di un poeta con la scrittura, lo spessore di una memoria che dimentica, che si riversa sulla superficie per resistere alle intemperie del contingente, del fuggitivo. Per scongiurare la “rapace entropia cosmica”, di cui queste opere di barocca geometria sono il paradossale elogio.
Sono, infatti, superfici profonde, carte assorbenti, appunto, che accolgono e trasformano la storia, ordinaria e straordinaria, di un uomo e di un poeta, che disegnano il fluire del tempo e costruiscono via via una trama, fitta o diradata, di segni, immagini e parole, calligrafie e scarabocchi – “l’io e l’altro – ha scritto Sinisgalli - si riconciliano nello scarabocchio” – che il colore complica, accende di misurata passione. È, davvero, una ipertrofia segnica, un vocabolario transemiotico fatto di piccole annotazioni, di appunti, di date e di dati quotidiani, di graffi, di lucide scorie del pensiero. Di materiali e tracce del corpo, della sua intelligenza e del suo ritmo – “Qualunque ritmo è legato ai moti di cui il nostro corpo è capace” – attraverso i quali gli strumenti linguistici sono sottoposti ad una verifica costante, ad una luminosa, inevitabile sofisticazione intellettuale.
Tra concretezza e astrazione, Sinisgalli neppure nelle sue carte assorbenti rinuncia all’esercizio, misuratissimo, di una sapiente pratica combinatoria, esprimendo una rigorosa istanza compositiva anche in questa, per nulla marginale, occasione (e vale la pena sottolineare che è stato alla prestigiosa Galleria Apollinaire di Milano che il poeta, “al culmine del suo narcisismo”, presentò, come ha ricordato con affetto Agnese De Donato, un primo saggio di questo suo lavoro). Una necessità progettuale che se da una parte porta l'artista a disegnare, con razionalità, un mondo irrazionale, imperfetto, asintattico e disarmonico, dall'altra stabilisce un contatto artigianale e mentale con la carta per dar luogo ad atmosfere diafane, a rebus, a esercizi di stile che confermano quella che Filiberto Menna ha definito la “non univocità dei codici”.
Nella pienezza di un fare che si sottrae ai limiti disciplinari, che gioca sull’ambiguità dell’accidente, ovviamente controllatissimo, sulla velocità dell’haiku e sulla pensosità del progetto, Leonardo Sinisgalli ha dunque addensato in ogni pagina, in ogni carta qui raccolta un’autobiografia ellittica ed elusiva, un racconto che, finalmente riemerso dalla quiete di un album a lungo dimenticato, restituisce ora tutta la sua vitalità, la sua forza visiva, offrendosi come un testo (un test) da attraversare. Da scomporre e ricomporre, in cerca di nuovi indizi, di altri ordini, con la pazienza e la tenacia di chi, come Sinisgalli, sa che il pensiero, come l’opera «non nasce in un soffio».
A cura di Antonello Tolve e Stefania Zuliani |
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