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La Piazza

14/02/2011

“le mani nodose
Di nerbuti vecchi
S’appoggiano stanche
Ai consumati bastoni
Unica consolazione alla
Perduta gioventù”..
Proponiamo oggi ai nostri lettori questa mia breve, elementare poesia che ritrae un ambiente, un’atmosfera che chiunque l’abbia vissuta e ne serbi il ricordo porterà sicuramente nel proprio cuore per sempre. Era quello un luogo di umano ritrovo, di confronto e di crescita, di giuochi per i bambini e di scambio di idee per gli adulti, di riposo per gli anziani: era, in una sola parola, la piazza. Ogni paese, anche il più piccolo per dimensioni e popolazione, ne ha una: quadrata, tonda rettangolare, irregolare, alberata, spoglia, con pochi o tanti balconi a fare da cornice, con pochi o tanti negozi a ravvivarne i contorni, non importa la forma e tutto il resto perché tutte, in un passato recente che ci appartiene, avevano in comune un unico grande cuore pulsante: le persone che vi si radunavano per stare insieme. Proprio a quel luogo si doveva, in tempi di povertà e di isolamento, il fatto che quel sentimento umano che prende il nome di solitudine qui, nei nostri piccoli ed arroccati paeselli sperduti tra i monti era quasi completamente sconosciuto. Come ci sembra lontano tutto questo se si pensa alle moderne case di riposo che hanno invaso anche i nostri luoghi; agli animatori, professionisti specializzati a combattere la solitudine e la melanconia; i centri diurni; le cliniche; gli R.S.A; i servizi domiciliari. Tutte cose che la nuova economia può utilissimamente offrire ai cittadini per bilanciare uno spostamento del baricentro esistenziale dalla collettività all’individuo: si ha la sensazione che oggi l’uomo viva per bruciare la propria esistenza intrappolato tra l’esigenza di guadagnare e la frenesia di provare piacere preso in un fatale ingranaggio proprio come mirabilmente rappresentato nelle riprese del grande e lungimirante Chaplin. La piazza era invece la vita che scorreva senza soluzioni di continuità, si percepiva in essa il senso stesso dell’esistenza. Il ricambio generazionale si poteva toccare con mano, i più giovani acquisivano le tradizioni, i modi di dire e di pensare delle generazioni precedenti dagli anziani che ricoprivano un ruolo educativo e per questo non si sentivano mai inutili, ed i medici ben sanno quanto le sensazioni di inutilità e di abbandono vanno poi ad incidere sui disturbi fisici e psichici. Vi era una cultura orale che veniva tramandata di generazione in generazione ma soprattutto, in quel luogo, ognuno aveva un nome, una storia conosciuta o da raccontare; ognuno di quegli uomini e di quelle donne era per tutti gli altri un membro appartenente alla comunità degli umani. Oggi forse non è più così, troviamo scritti cartacei o ancora peggio informatici ad indicare individui senza volto che nascono, vivono e muoiono senza lasciare memoria di sé nella comunità che li ha tenuti in grembo. Le banche dati, gli archivi anagrafici, gli uffici del lavoro. Città che assomigliano sempre più a degli alveari dove tutto appare frenetico, convulso, confuso, senza pace e senza senso. In quello spazio circolare invece, contornato di muretti, magari ombreggiato da un vecchio salice o da qualche piata di acacia si potevano distinguere le persone per la loro giacca, dal suono della voce o persino dall’odore che emanavano e la nostalgia per quelle risa, per i volti segnati dalle fatiche e dal tempo, per il senso di protezione e di accoglienza che quella grande famiglia esprimeva si accresce e stringe alla gola quando ci sentiamo soli in un mondo condiviso con delle macchine. Ma veniamo alla poesia che l’autore gettò d’istinto su di un biglietto quasi sognando ad occhi aperti quel luogo. La si propone così come uscì dalla penna senza essere mai stata ritoccata nella sua semplicità quasi infantile degli anni del liceo ma in essa vi è l’anima di un ragazzo del sud, l’amore per le cose semplici, la capacità di osservare il mondo e di scorgere la bellezza che vi si trova racchiusa.
La piazza. Tanto piena di vita che anche dopo la loro morte fisica i personaggi in essa continuavano ad esistere per generazioni nell’aneddotica, nei racconti, nelle citazioni degli anziani. C’era allora la tendenza a ricostruire continuamente l’albero genealogico di ognuno cosicché da piccoli si aveva l’idea della propria discendenza, delle proprie radici. Proprio come una grande madre quel luogo, ora quasi sempre deserto e spoglio nel quale il suono che domina è molto spesso quello del vento che solleva nugoli di foglie morte, accoglieva tutti i suoi figli e così, in questo modo si creavano legami forti tra le persone tanto che il povero storpio veniva ricordato dal giovane dottore che studiando al nord faceva in modo che venisse lì operato e riacquistasse la propria dignità di uomo; l’amico chiamava l’amico per un lavoro; il figlio emigrante aiutasse i propri parenti rimasti in paese.
Forse e troppo presto per cominciare a fare bilanci per questa civiltà supertecnologica ma di sicuro abbiamo dovuto cedere una grossa fetta della nostra umanità per spingere in salita questo tipo di progresso e, forse, non era neanche necessario…

Antonio Salerno



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