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Il Poeta |
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7/07/2011 | L’uomo, unico essere a poter compiere viaggi nel tempo, reca seco mondi scomparsi, illusioni perdute, sogni svaniti come brume ai primi tepori dell’alba. Ma per quanto effimere possano essere le sensazioni, per quanto relativo il perdurare delle vicende umane tutto può rinascere nel racconto, rifiorire nella narrazione come da una radice assopita sotto la terra arida che all’arrivo delle fertili piogge si affaccia con una piccola, timida fogliolina ad osservare di nuovo il mondo. La pianta che fa rivivere ciò che non c’è più è il ricordo e la sua radice è il poeta, simbolo di ogni espressione dell’arte che altro non è se non un mirabile tentativo di fermare il tempo su di una immagine ammirata in un presente in continuo rivolgimento. Vi erano un tempo luoghi lontani verso i quali tanti giovani del sud partivano per lavorare, per studiare, per apprendere modelli sociali avanzati, dove le persone, malate, si recavano intraprendendo viaggi della speranza: l’Emilia Romagna con le sue belle città. Fino agli anni ottanta Bologna si presentava come una città provinciale: uscendo in strada, alla mattina, si veniva investiti dal profumo proveniente dai tanti forni e dalle pasticcerie del centro e un festoso vociare di gente che si conosceva da sempre riecheggiava sotto le volte dei lunghi portici. La cadenza dolce, melodiosa di quel dialetto risultava rassicurante, ispirata all’allegria e contrastava con l’austera sobrietà degli istituti universitari le cui splendide aule sembravano custodire i primordiali misteri dell’universo. In quella città antica era possibile incontrare, nelle fredde notti invernali, presso l’osteria “Da Vito”, famosi cantautori italiani che, con una vecchia chitarra, passavano in amicizia ed allegria le loro serate. Proprio uno di loro ha reso viva ed eterna quell’atmosfera con i propri versi che così la descrivono: “Bologna è una vecchia signora, dai fianchi un po’ molli col seno sul piano padano ed il culo sui colli. Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale, Bologna la grassa e l’umana già poco Romagna e in odor di toscana”. L’artista inizia il suo canto offrendo una precisa collocazione geografica della città e nello stesso tempo un primo tratto sociologico capace di dare connotazione ad un popolo ricco ma con una grande umanità, gentile ma dotato di una immensa determinazione, festoso come i romagnoli ma anche virtuoso e testardo come i vicini toscani: presenta così una città e il suo popolo con pochi colpi di pennello. Poi continua descrivendo quella meravigliosa atmosfera cui prima si accennava: “…Bologna per me provinciale, Parigi minore: mercati all’aperto, bistrots, della “rive gauche” l’odore…”. Com’è vero ancora oggi tutto questo: gli splendidi, ordinati mercatini di via orefici che si affacciano con lo guardo, quasi per magia, negli spazi immensi di piazza Maggiore. Anche se pieni di turisti e senza più gli anziani bolognesi che discutevano, nel loro caratteristico modo concitato, su come cambiare il mondo, questi scorci della città non cessano di suscitare nell’osservatore grandi emozioni. Poi il poeta penetra ancora più a fondo in quel mondo fino a coglierne l’essenza della vita sociale dell’epoca: ”…però che bohéme confortevole, giocata tra casa e osterie quando ad ogni bicchiere rimbalzano le filosofie. Ho quanto eravamo poetici, ma senza pudore o paura e i vecchi “imberiaghi” sembravano la letteratura. Ho quanto eravam tutti artistici, ma senza pudore o vergogna, cullati tra i portici cosce di mamma bologna…”. Senza timore o vergogna, dice Francesco Guccini; ma di cosa? Forse di essere sé stessi! Di mantenere quella identità che distingueva quella gente dalle altre: vi era, allora, il coraggio di parlare di politica, di progettare il futuro della Nazione, e tutto ciò lo si faceva magari bevendo un bicchiere di vino con gli amici. Vi era, ed ora non c’è più, il coraggio di avere fiducia nel prossimo. Il testo continua: ”…Bologna è una donna emiliana di zigomo forte, capace d’amore, capace di morte…”. Guardando all’epoca i volti gentili di quei bolognesi era possibile scorgere nei loro occhi l’ardore di chi ha fatto la storia, la consapevolezza del patriota che vede intorno a sé proprio ciò che ha voluto costruire con le proprie mani. Poi, come accade sempre, a quella gente sono succeduti i figli, i quali la storia la conoscevano dai racconti dei padri serbandone però ancora le passioni e i valori. Dopo i figli sono arrivati i nipoti i quali si sono trovati tra le mani grandi ricchezze materiali e culturali ma anche grosse sfide da affrontare, grandi ferite da rimarginare, e tutto questo hanno dovuto coniugare con i cambiamenti che il loro tempo imponeva. A poco a poco quindi quel vecchio mondo è sfiorito, sbiadito e poi sparito del tutto. Guccini sintetizza magistralmente questo passaggio dal passato al presente con altri splendidi versi: ” …lo sprechi il tuo odor di benessere, però con lo strano binomio, dei morti per sogni davanti al tuo Santo Petronio e i tuoi bolognesi se esistono, ci sono ma ormai si son persi, confusi e legati a migliaia di mondi diversi…”. Di quella città, di quel mondo, parrebbero rimanere solamente mirabili vestigia ma se si guarda con più attenzione nelle vie del centro, sulla piazza, tra i vicoli, nelle chiese e sui monumenti si può vedere aleggiare lo spirito del suo antico popolo che ne riempie i vuoti come l’anima un corpo. Ma prima di abbandonare il nostro autore gustiamo ancora altri pochi versi che parlano del cambiamento e richiamano il passato: ” sono aperte come un tempo le osterie di fuori porta, ma la gente che ci andava a bere fuori e dentro è tutta morta; qualcuno è andato per età, qualcuno perché già dottore e insegue una maturità, si è sposato fa carriera ed è una morte un po’ peggiore…cadon come foglie o gli ubriachi sulle strade che hanno scelto, delle rabbie antiche non rimane che una frase o qualche gesto, non so se scusano il passato, per giovinezza o per errore, non so se ancora desto in loro, se mi incontrano per forza, la curiosità o il timore”. Non solo chi ha vissuto personalmente quell’atmosfera può cogliere in questi testi la pienezza di una vita semplice fatta di ideali e di profonda umanità ma chiunque ne volesse cercare le tracce nella musica e nei versi che la rappresentano ne verrà, quasi senza accorgersene, contagiato. Cosa sarebbe del mondo interiore dell’uomo senza l’arte? Non tutto si può recuperare del passato perché la bellezza non è solo nell’oggetto che si ammira e neanche esclusivamente in colui che guarda bensì nelle atmosfere che lo circondano, nel mondo cui appartiene. Parte di quei frammenti di mondo perduto ci vengono restituiti proprio dall’arte senza la quale nulla più rimarrebbe di ciò che è stato proprio come sottolineato ancora una volta dal nostro poeta: ”…si alza sempre lenta come un tempo, l’alba magica in collina. Ma non provo più quando la guardo quello che provavo prima. Ladri e profeti di futuro, mi hanno portato via parecchio, il giorno è sempre on po’ più scuro, sarà forse perché è storia sarà forse perché invecchio…”.
Antonio Salerno
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