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Abitare i margini: riflessioni sul futuro dei piccoli paesi tra spopolamento e senso di appartenenza |
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23/09/2024 | “Abitare i margini”, un tema tanto affascinante quanto complesso da affrontare. Una chiacchierata illuminante si è svolta a San Paolo Albanese, "un paradigma per molti studiosi, il piccolo paese arbëreshë è un osservatorio per comprendere i tanti temi che interessano le piccole realtà”. Sono le prime parole di Ferdinando Felice Mirizzi, professore ordinario di Antropologia culturale presso il Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo dell'Università degli Studi della Basilicata, una delle figure più autorevoli dell'antropologia italiana. “Chiamiamoli paesi – dice – lasciamo perdere i borghi, un'edulcorazione a fini turistici”. L'illustre antropologo ha parlato del progetto “Abitare i margini” e delle sue varie sfaccettature. Una di queste, immancabile, è lo spopolamento, che per Mirizzi non si può fermare: “È inutile illudersi. Si tratta di un processo strutturale – ha continuato – di portata talmente generale che non si può pensare di bloccarlo a livello locale. Un sindaco non può farlo da solo”. Un problema serio, certamente. Tuttavia, rispetto a molti anni fa, qualcosa è cambiato: le comunicazioni sono migliorate e sono nate aree industriali come quelle di Senise, che però non riescono a decollare, ad attrarre risorse e investimenti, sia italiani che esteri.
Oggi è possibile lavorare da remoto, la presenza, in alcuni casi, di nomadi digitali è una realtà; inoltre, l'intelligenza artificiale, la digitalizzazione e la rete sono alla nostra portata e potrebbero fare la differenza, ma servono aiuti, formazione specifica, investimenti e apertura mentale. Bisogna investire presto e bene le risorse disponibili, per entrare nel “nuovo mondo”, fatto di nuove opportunità, senza trascurare l'artigianato e le risorse che da sempre appartengono al nostro patrimonio.
Le responsabilità? Probabilmente un po' di tutti, distribuite orizzontalmente e verticalmente. Tra le possibili cause: formazione inadeguata, politiche non lungimiranti, l'indice di vecchiaia sempre più alto e l'assenza di politiche comuni su vasta scala; in altre parole, non si riesce a fare rete. I ragazzi se ne vanno, le uniche vere risorse per programmare il futuro. Eppure, siamo comunità uniche, potenzialmente ricche: natura, storia, storie, tradizioni, prodotti unici non mancano. In pochi chilometri possiamo trovare mari, colline e monti, con una flora e fauna uniche.
Allora? Forse la chiave sta nella mancata consapevolezza delle nostre potenzialità; questo accade quando non si ha piena coscienza di ciò che siamo. È necessario porci delle domande. Chi siamo davvero? Cosa potremmo diventare? Il professor Mirizzi, con la sua esperienza di fine antropologo, ci invita a interrogarci. Lo fa partendo da una semplice domanda, all'apparenza banale ma in realtà profondamente significativa, destinata a diventare la domanda del presente e del futuro: “Cosa sono i paesi oggi e come dovrebbero essere domani?”. “Spesso, la storia dei paesi – spiega l'illustre antropologo – si identifica con la storia delle singole persone, come emerge dalle molte ricerche. È importante legare la vita dei singoli alla vita dei paesi”. Il presente e il futuro dipendono da questa individualizzazione del rapporto tra persone e luoghi. “Il paese non è il luogo fisico – chiarisce – non sono le piazze, i monumenti, i paesaggi; quelli sono solo il contenitore. Il paese non è il luogo che viene abitato, è soprattutto una ‘struttura di sentimento’". Parlare di paesi significa parlare di persone, delle relazioni emotive e sociali che legano gli individui tra di loro e al luogo. Il luogo non esisterebbe senza questa struttura di sentimenti”.
Ecco allora le domande che Mirizzi si pone, e che tutti noi dovremmo porci: perché si resta, perché si va via, perché i figli restano o se ne vanno, perché si torna, quando si torna; cosa si prova quando si torna o quando si va via, e quando si è lontani. Questa struttura di sentimenti – precisa il professore – diventa tanto più forte quanto più si è distanti dal luogo in cui si è nati e vissuti, perché stare lontano stimola quel senso di appartenenza che si radica soprattutto nel riconoscimento degli affetti. Sotto questo punto di vista, i paesi non moriranno mai”.
Partire dal folklore, dalle radici, per avviare un percorso forse impervio, certo, ma necessario, un cammino che ci porti alla ricerca di quel "Santo Graal" che per noi è e deve essere un progetto possibile di sviluppo, in cui l’"anthropos" diventa "ethnos", come ben suggeriva Luigi Maria Lombardi Satriani. Un “popolo” allargato, diremmo noi. Bene lo spiega Mirizzi, partendo proprio dai paesi. “Quello che conta – sottolinea – è il sentimento del paese, delle persone. Si può abitare un paese anche se non si è presenti fisicamente. Come diceva Ernesto De Martino, si ritorna con la mente, con il cuore".
Poi altri spunti di riflessione: "Ci sono occasioni anche per tornare fisicamente, come per le feste, ma si torna anche per onorare la memoria di chi non c’è più. Nei paesi – racconta con passione – un ruolo fondamentale lo svolgono i cimiteri. Si rientra per rinnovare gli affetti. Il cimitero è un luogo importante, anche se ai margini dell’abitato, è il cuore del paese, perché è un importante centro aggregante”. L’antropologo ci accompagna, ci spiega, ci prende per mano. Un mondo fatto di domande, considerazioni, riflessioni, dove l’apertura, l’intelligenza e l'umiltà di saper guardare le cose con occhi attenti collegati alla mente e al cuore sono essenziali per trovare risposte in grado di portarci a uno scopo comune: una crescita collettiva sul piano sociale, economico, culturale e soprattutto umano. Un viaggio tra realtà, allegoria, metafora e speranze, mentre le tante domande continuano ad affollare la nostra ragione. “Cosa si può fare per vivere un paese, pur non essendoci? Un tema – che Mirizzi affronta con consapevolezza – su cui vale la pena riflettere”. Qual è allora il ruolo dei riti e delle feste? Quanto possono essere aggreganti, motivi di riappropriazione del paese? Un tema non secondario, anzi… “Chi abita i luoghi – ricorda – il più delle volte dà tutto per scontato, senza considerare il significato più profondo. Il rito va visto come elemento di congiunzione, più che di dialogo. Importante è capire il rapporto tra il sacro e il patrimonio, sul quale e con il quale la comunità costruisce il proprio stare nel mondo contemporaneo. È importante dialogare anche con chi non è nato nella comunità, ma esiste. Necessario è il confronto anche con chi è del paese ma non vi risiede stabilmente. La comunità – sottolinea – non è fatta solo da chi condivide lo spazio in un determinato tempo, ma anche da chi quello spazio lo ha condiviso in passato e da chi lo condividerà in futuro. La comunità non è legata solo al luogo fisico, ma è un luogo ideale, una struttura di sentimento. I paesi – conclude – non moriranno mai, perché ciò che terrà insieme le persone è un comune senso di appartenenza a questa struttura di sentimento, che costituisce il cuore del paese, e una spinta formidabile in questo senso la danno proprio quelli che non ci sono più, i nostri cari, i nostri morti”.
Vincenzo Diego |
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