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Antonio Giuseppe Caiazzo : un anno dopo il naufragio di Steccato di Cutro |
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25/02/2024 | “Viviamo in un contesto culturale segnato dalla mentalità edonistica e relativistica, che tende a cancellare Dio dall’orizzonte della vita, non favorisce l’acquisizione di un quadro chiaro di valori di riferimento e non aiuta a discernere il bene dal male e a maturare un giusto senso del peccato” (Benedetto XVI).
Il 19 aprile del 2023, con un gruppo di sacerdoti della Diocesi di Tricarico, accompagnato dal parroco di Steccato di Cutro, Don Pasquale Squillacioti, mi reco su quella spiaggia che alle ore 4.30 del 26 febbraio vide, a pochi metri dalla riva, infrangersi il sogno di libertà di circa 100 persone, sotto le onde furiose del mare.
Il 19 aprile è una giornata di sole, il mare è liscio come l’olio e trasparente. Sulla spiaggia i segni di croci, di fiori, lumini spenti, scarpe, vestiti, peluche per bambini, biberon…, tanti pezzi di legno di quell’imbarcazione sparsi per centinaia di metri.
E’ difficile parlare. C’è solo silenzio. Nessuno ha voglia di aprire bocca. Solo preghiera e commozione prima di celebrare la S. Messa in suffragio dei naufraghi e dei dispersi.
Ora che i riflettori nazionali e internazionali si sono spenti, le passerelle finite, c’è il riflesso dorato del sole che solca quelle calme e deliziose acque come grembo che ha accolto l’ultimo alito di vita sulla terra di bambini, giovani, adulti.
Raccolgo due piccoli pezzi di legno di quella barca. Li porto gelosamente con me fino a Matera, dove, nella mia cappella li pongo per sempre a forma di Croce. Ogni giorno un ricordo nella preghiera per i tanti, troppi innocenti che nel nostro splendido mare trovano la morte.
Sono almeno 40 anni che si assiste, a volte sgomenti, altre volte addolorati, altre volte, purtroppo, stanchi o meglio scocciati, nel vedere corpi senza vita recuperati in tutto il bacino del Mediterraneo. C’è la morte sulle rotte tracciate nel nostro mare: partono dalle coste africane o da quelle dei Balcani per approdare su quelle siciliane o calabresi, a volte pugliesi.
Si tratta di spostamenti di persone e non di numeri. Dietro ad ogni numero c’è un essere umano: una sorella, un fratello, una figlia, un figlio, una madre o un padre, che hanno lasciato il proprio paese affrontando difficoltà estreme, sperando di raggiungere una nuova terra dove trovare migliori condizioni di vita.
All’ultimo festival di San Remo c’è un passaggio nella canzone “Casa mia” di Ghali che richiama i tanti conflitti bellici in corso, e rimanda alla terra, casa comune: “Casa mia /casa tua / che differenza c’è? Dal cielo è uguale giuro”.
Purtroppo, ormai, siamo abituati a conoscere o, meglio, vedere i migranti solo quando arrivano sulle nostre terre, ma difficilmente si parla delle motivazioni che li portano a scappare. Una su tutte: i loro paesi sono fortemente segnati dalle conseguenze lasciate dagli Stati postcoloniali. Quindi l’Occidente! Quindi anche l’Italia! Non è forse questo il messaggio di Papa Francesco: “Liberi di scegliere se migrare o restare”? Sono due diritti fondamentali come “il diritto di vivere nella propria terra o migrare liberamente. Diritti oggi a rischio perché spesso non si conoscono – o non si vogliono conoscere – le reali motivazioni delle partenze specialmente da luoghi dove c’è guerra o si vivono situazioni di estrema povertà. Dovrebbe essere chiaro per tutti che per comprendere bisogna conoscere”.
Eppure la storia ci insegna che tutte le civiltà hanno trovato la loro costruzione e il rinnovamento attraverso le migrazioni. Senza andare troppo lontano basterebbe considerare i precedenti secoli: dall’ottocento al Novecento e quindi a questo periodo del terzo millennio. Noi italiani e, in particolare del Sud, abbiamo letteralmente invaso il mondo alla ricerca di un futuro migliore. Nelle Americhe, in Australia, nel Nord Europa. Tutti i popoli, sull’intero globo terrestre, con oltre 160 milioni di persone hanno trovato collocazione e integrazione contribuendo in modo essenziale alla crescita economica, culturale, umana, religiosa.
Oggi la malavita organizzata ha investito sui poveri disgraziati: sono una risorsa da sfruttare che rende bene con “carrette” del mare, con il racket della prostituzione delle donne, del caporalato per gli uomini.
Charitas italiana, qualche anno addietro ha pubblicato “Cause di migrazioni e contesti di origine”. Riporto questo pensiero: “Quando si parla di migrazioni “l’occhio di bue” mediatico illumina sempre l’apice della crisi. La luce viene puntata sugli sbarchi, gli arrivi, l’accoglienza. La punta dell’iceberg insomma. Non passa giorno senza resoconti mediatici concentrati sugli aspetti negativi della migrazione. Migranti che paiono piovuti dal cielo, in arrivo da terre sconosciute. Persone decontestualizzate e ridotte a categorie giuridiche e mediatiche di richiedenti asilo, profughi, migranti economici, o più brutalmente categorie discriminatorie di clandestini, invasori, irregolari”.
Sono almeno quarant’anni che il fenomeno migratorio è ripreso in particolare verso i paesi occidentali, trovando nelle politiche dei governi che si sono succeduti in Italia e in Europa costanti ostacoli alla circolazione delle persone, impedendo quel ricongiungimento familiare con quanti erano partiti prima. Al contrario c’è stato un incremento del libero mercato delle merci, del commercio dei beni. Basterebbe vedere come proprio in questi giorni le rotte del mare commerciali vengono difese con il rischio di una guerra mondiale.
Se nei secoli precedenti le motivazioni che spingevano la nostra gente a spostarsi, dall’Italia in altri paesi, erano sintetizzati nel sogno americano o australiano, oggi si scappa da povertà, miseria, guerre, ingiustizie, persecuzioni. Sta emergendo sempre di più una nuova figura del migrante che è quella del rifugiato che scappa dai deboli regimi dittatoriali, da guerre civili che hanno procurato e continuano a procurare milioni di vittime senza che l’occidente sia adeguatamente informato e nel silenzio delle istituzioni europee e mondiali.
Dopo la tragedia di Steccato di Cutro, risuonano ferme e decise, ancora una volta, le parole di Papa Francesco, voce di chi non ha voce: “Fermare i trafficanti, non continuino a disporre della vita di tanti innocenti… I viaggi della speranza non si trasformino più in viaggi della morte. Le limpide acque del Mediterraneo non siano più insanguinate da tali tragici incidenti… Che il Signore ci dia la forza di capire e di piangere”.
Quale monito dalla tragedia di Steccato di Cutro? Ora si celebrerà l’anniversario. Si riaccenderanno i riflettori per qualche ora, sentiremo le solite dichiarazioni, rivedremo, con gli occhi del ricordo e di uno sgomento non ancora spento, i corpi galleggianti: i “più fortunati” recuperati, riconosciuti e seppelliti; tantissimi altri rimarranno senza nome in una tomba comune. Il mare, che oggi accoglie e custodisce la loro memoria, domani giudicherà questo nostro tempo così grigio e disamorato della vita; questa umanità, non più popolata da amici, figli o fratelli che, riconoscendosi, si incontrano, ma da nemici che si scansano quando non si uccidono.
Il rapper milanese Dargen D’Amico, nella canzone che ha presentato all’ultimo San Remo, “Onda Alta”, parla dei migranti e dei rischi che affrontano nell’attraversare il mare, ma anche della vita da affrontare in un paese che spesso si rivela ostile: «Se basta un titolo a fare odiare un intero popolo». Tra le righe della canzone si coglie il richiamo al Patriarca Noé e cantando un nuovo diluvio universale dice: “Sta arrivando l’onda alta, / non ci resta che pregare finché passa”. E’ l’onda che sta sommergendo questa nostra società che ha dimenticato cosa significa “persona”, anzi la considera un numero, e intanto l'onda vera è quella di chi naviga “verso Malta, senza avere nuotato mai nell’acqua alta”.
È allora che mi chiedo chi siano i veri naufraghi…
Il giorno della “memoria” una giovane studentessa di 17 anni, rivolgendosi a tutti gli studenti, ai docenti e alle autorità civili, militari e religiose, ha aperto il cuore di tutti con queste parole: “Non possiamo rassegnarci davanti a ciò; una frase tratta dagli scritti di Baudelaire ce lo conferma :“Le disfatte sociali - scriveva il poeta francese - non sono solo imputabili alla sorte di questa o quella istituzione, ma all'avvilimento dei cuori”. Riflettendo su questo, non si può allora lasciarsi soccombere dall'avvilimento del proprio cuore, dalla frustrazione in cui le momentanee sconfitte inducono, correndo il rischio di lasciarsi andare, nata restare indifferenti.
La generazione Z è pronta a portare avanti la diversità in tutte le sue forme, e a promuovere l’inclusione di essa che è fondamentale e alla base della nostra biodiversità. Per questo noi giovani attraverso l’esercizio di memoria smettiamo di essere indifferenti e diventiamo protagonisti di un presente da curare con affetto e pace per un futuro che, come un albero della vita, è colmo di ossigeno di amore e cura” (Sanya Bonelli).
+ Antonio Giuseppe Caiazzo
Arcivescovo di Matera-Irsina
Vescovo di Tricarico
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