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Le linee di Cotta e De Rosa agli albori della Dc |
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27/06/2023 | «Ci sono ragioni che giustifichino l’esistenza di un partito di ispirazione cristiana?» si chiedeva Sergio Cotta al convegno della Democrazia Cristiana di Lucca nell’aprile del 1967. Questo convegno era stato organizzato per cercare di costruire una base nella società iniziando una sorta di dialogo tra la DC e il mondo della cultura. La risposta a tale quesito data da Cotta era affermativa, nel senso che tale partito avrebbe dovuto trasformare la società tecnologica in civiltà tecnologica. Nel suo discorso il professor Cotta, per prima cosa si muoveva sul terreno dell’impegno del cristiano sul piano politico, cosa questa che non pregiudicava affatto l’esistenza o meno di una DC. Quello che Cotta stesso chiamava il «nostro problema» veniva però non solo non risolto, ma neppure affrontato nel suo discorso. Difatti ad un certo punto afferma, come pocanzi abbiamo sottolineato: «Ma è tempo di tornare al nostro problema: ci sono oggi ragioni che giustifichino l’esistenza di un partito di ispirazione cristiana?». Questa domanda, sorprendentemente, rimaneva senza risposta, anzi, sulle premesse poste dallo stesso Cotta, quelle ragioni non c’erano. E non ci sarebbero state neppure tenendo conto del discorso fatto sulla società tecnologica. Difatti non si capisce come, se davvero le cose stavano come il relatore affermava, un partito politico, solo perché di ispirazione cristiana, potesse trasformare la società tecnologica in civiltà tecnologica. Inoltre senza dimenticare che il Cotta non affrontava affatto il problema storico e concreto se il partito esistente di ispirazione cristiana fosse o meno idoneo a compiere una così grande impresa.
Di diverso avviso, invece, Gabriele De Rosa, il quale criticava la linea politica della DC definendola empirico-moderata: «Noi purtroppo spesso chiamiamo sviluppo ciò che più rigorosamente dovremmo definire pura crescita quantitativa, a singhiozzi, per puri impulsi produttivistici, di una economia fine a se stessa. I partiti possono dare una tensione ideale a una vera e autentica politica di sviluppo solo quando siano capaci di produrre una classe dirigente non più vittima del complesso dei rapporti di forza, dei ricatti, delle molteplici pressioni corporative». E poco prima lo stesso De Rosa affermava nella sua relazione: «Un partito che poi in qualche modo voglia definirsi di cattolici non conclude l’esperienza politica in una esperienza di burocrati, ma delle diverse aree della sua azione assumerà il livello culturale che è ad esse congeniale».
Ora a distanza di quasi ottantant’anni da queste affermazioni e a trenta dalla fine della Democrazia Cristiana, come si sono svolti realmente i fatti? Quale linea politica ha avuto la meglio, quella di Sergio Cotta o quella di Gabriele De Rosa? Rileggendo analiticamente la storia dell’ultimo trentennio di politica italiana possiamo senza ombra di dubbio affermare che sia stata la linea Cotta ad avere la meglio e ad imporsi nella scena pubblica italiana. Una linea, però, che, come abbiamo visto, non spiegava in base a quali ragioni doveva nascere un partito di ispirazione cristiana; quindi possiamo affermare soltanto che è prevalsa la volontà di far nascere un partito di ispirazione cristiana senza una spiegazione che ne delineasse le motivazioni storiche alla base di questa nascita. In un certo senso, possiamo dire, che è prevalsa la linea di Cotta, ma sono prevalsi anche i timori di De Rosa perché il partito che abbiamo conosciuto è stato un partito fortemente burocratizzato, un partito che aveva il suo zoccolo duro nella burocrazia e nella pubblica amministrazione. Ed è li, in quell’ambiente specifico che la Democrazia Cristiana ha mosso i primi passi e, a ben vedere, non poteva essere altrimenti. Un partito che aveva l’ambizione di diventare il partito-nazione doveva per forza entrare nella pubblica amministrazione per controllare dall’interno la vita dello Stato. Tutto questo stato di cose doveva essere presente ai relatori del convegno di Lucca, in quanto queste erano state le scelte e le direttive che lo stesso De Gasperi aveva impartito ai suoi uomini: la DC aveva bisogno di collocare uomini ovunque (cosa che poi realmente fece). Quindi non ci si deve meravigliare (e non avrebbero dovuto meravigliarsi i partecipanti al convegno di Lucca), di quel che avverrà poi in un partito che ha avuto direttive impostate ad una visione gerarchica e corporativa della società, in cui la vita pubblica è vista come una griglia, dove i dirigenti si collocano come semplici uomini al posto giusto nello svolgere la loro mansione. Tutto ciò dimostra come la DC non avesse di se stessa una visione moderata, una concezione di “partito nuovo”, ma solo quella dell’espressione elettorale e propagandistica di un vasto «mondo cattolico» dato come presupposto e come valore e strumento insieme per operare una valida difesa contro il comunismo.
Più che trasformare la società tecnologica in civiltà tecnologica (cosa che poi non si capisce come un partito potesse riuscirvi) la Democrazia Cristiana, e su questo erano fondati i timori di Gabriele De Rosa, ha plasmato la società italiana in una società burocratizzata, gerarchizzata, una società chiusa priva di libertà individuali; una società che, in un certo senso, ha anticipato la moderna società globalizzata e nella quale la politica molto spesso, come sottolineava De Rosa più di cinquant’anni fa, si è caratterizzata per comportamenti e atteggiamenti corporativistici, legati al proprio tornaconto personale, ai ricatti e all’omertà. Non proprio quello di cui aveva bisogno un partito che si definiva di ispirazione cristiana.
Nicola Alfano
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