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Tra ricerca estetica, indagine e impegno sociale: il regista Nicola Ragone racconta la sua arte

7/04/2023

Quando mi relaziono ad un film, ad uno spettacolo teatrale, a un dipinto, a un format culturale, tra i primi aspetti che il mio me di spettatore si augura di poter gustare, vi è la sensazione di poter avvertire un livello reale di soddisfazione nella fruizione di quell’opera; e non tanto per totale aderenza allo scenario interiore dell’autore quanto dal riconoscimento di un talento, di una passione, di un energia conscia e intelligente che diventa impegno, o denuncia o disturbo o estasi. Parlo di una visione figlia del mondo interiore di chi la esprime e non delle convenzioni o dell’indottrinamento.
Approcciandomi alle produzioni e alla persona del regista, autore e creativo Nicola Ragone, ho avvertito in lui questa sensazione e l’urgenza. L’urgenza di bellezza, l’urgenza di fare, l’urgenza di un tentativo autentico, l’urgenza di dover capire per far capire.
Nell’intervista che segue, Nicola Ragone ci racconta della sua arte, del suo percorso artistico e del suo spettacolo “I love the Bronx”.
Quando nasce la sua passione artistica? E quando ha deciso di farne un mestiere?

Nasce paradossalmente dalla noia. Nasce per riempire un vuoto. Nasce dall’immaginazione, dai personaggi che osservavo durante i pomeriggi estivi trascorsi in paese. A sedici anni ero continuamente alla ricerca di storie, perché vivevo in un posto in cui mancavano centri di aggregazione giovanile. Mancavano le narrazioni e mancava un’identità specifica. I mondi della fantasia diventavano approdi sicuri, isole dove poter sognare, mezzi per poter guardare altrove, per evadere e oltrepassare il confine dei boschi e dei calanchi che circondavano il mio luogo di origine. Era un gioco urgente e necessario che univa un gruppo di amici. Un gioco che ci unisce ancora oggi. E per me è rimasto così. Non lo sento come un mestiere. Non lo è mai stato e forse non lo sarà mai.




Il suo lavoro privilegia spesso una attenzione alla Basilicata e anche il suo ultimo lavoro teatrale si sofferma su una analisi sociologia del territorio lucano. Come ha sviluppato questa intuizione da un punto di vista della ricerca e della messa in scena?

Credo che la Basilicata sia ancora quasi del tutto sconosciuta sia da un punto di vista antropologico che artistico. Esistono immagini e storie che ancora “non esistono”. Per adesso, purtroppo, esiste solo una spietata colonizzazione. Esiste Matera, Maratea e la costa. L’entroterra giace del tutto inesplorato. Come del resto la periferia. “I love the Bronx” nasce da questa riflessione. Dopo aver esplorato il Bronx di New York mi sono chiesto: esiste un Bronx in Basilicata? Quali sono le caratteristiche della periferia lucana? Quali le differenze tra il centro e la periferia di questa regione? La risposta non è assolutamente semplice. Occorre “guardare”, occorre “stare” in questi luoghi per comprenderne contraddizioni, valori, sfumature, ambiguità. Occorre tornarci più volte. Durante il progetto abbiamo provato a fare proprio questo. Tramite una serie di residenze artistiche abbiamo intervistato gli abitanti delle comunità periferiche. Da queste testimonianze sono nati i testi teatrali, una sorta di scrittura partecipata in cui il punto di vista interno dei residenti si è contaminato con lo sguardo esterno degli artisti.

Il suo spettacolo "I Love the Bronx" è una indagine sulla periferia. Cosa l'attrae e cosa ha scoperto della periferia lucana? E come definirebbe il concetto di periferia?

Il concetto di periferia non può essere sintetizzato in base ad una definizione univoca. Varia in base al luogo che rappresenta. Le periferie delle città sono completamente differenti rispetto a quelle lucane: sono sovrappopolate. Mentre la periferia della nostra regione è “la periferia dell’abbandono”, affetta da spopolamento e dalla totale assenza di servizi. Ci sono luoghi che vivono con la nostalgia di essere stati centri abitati, luoghi che non si rendono conto di essere popolati solo da fantasmi. Luoghi dove le speranze si sono spente e dovele persone si sono spostate altrove. Nessuno ci arriva più, nessuno ci ritorna. Mai. Sono spazi vuoti, corrosi e arrugginiti, abitati solo dal tempo e dai ricordi. Sono spazi aperti dove è possibile entrare ovunque. Per me sono fogli bianchi e un pò stropicciati, su cui provare a scrivere nuove storie. Sono “pellicole scadute” in grado di regalare immagini uniche, sincere, senza artefatti e neanche post-produzione. Dove il futuro risiede nel riportare alla luce la loro autenticità.

Prossime date e progetti futuri?

Con gli attori e i produttori stiamo lavorando per riproporre gli spettacoli di “I love the Bronx” nei luoghi a cui si è ispirato il progetto. Il nostro obiettivo è quello di ripopolare questi spazi periferici tramite il pubblico degli spettacoli. Ripopolarli per un giorno. Sicuramente è molto poco, ma è un segno. Un segnale. Un fatto. Un accadimento. Così almeno qualcuno potrà coglierlo. Oltre a questo esiste l’idea di allargare il percorso di “I love the Bronx” ad altri luoghi, per scoprire nuove storie e nutrire ancor di più questo nuovo immaginario. Progetti futuri? C’è un progetto a cui tengo moltissimo, perché nasce dal cuore ed è animato da un’urgenza che scalpita ogni giorno di più. Non vedo l’ora di poterne parlare, per adesso meglio restare scaramantici.

Roberta La Guardia



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