Rocco Scotellaro è stato un politico, sociologo, sindacalista, intellettuale, scrittore lucano, morto a soli 30 anni, stroncato da un aneurisma nel 1953 a Portici. Scotellaro è stato figlio del suo tempo, un tempo che ha saputo sapientemente raccontare, in tutte le sue sfaccettature, sbavature e contraddizioni, da una prospettiva diversa, tipica dell’intellettuale organico di cui parla Gramsci, che tenta romanticamente di ridurre il gap tra mestiere, manualità, tecnica e cultura. Egli non si fa soltanto portavoce della sofferenza, della rassegnazione di un Sud che arranca, che non riesce a riscattarsi e ad entrare nella Storia dei protagonisti, ma ha lavorato, si è battuto affinché la sua terra avesse una sorte diversa, capace di offrire ai suoi figli un futuro migliore. Ma Scotellaro è stato soprattutto un poeta, definito, spesso, in modo banale e riduttivo “poeta contadino”, quasi come se i suoi versi fossero legati solamente alla zolla di terra, al lamento, alla fatica della gente che la lavora, incapaci di dare voce agli affetti, ai tormenti, alla rabbia, all’amore, ai sogni, alle speranze di tutti gli uomini, indipendentemente, dalla loro provenienza geografica. Nella sua poesia, è vero, troviamo un Sud dimenticato, rassegnato, dolente, silente, che non ha forse, voltato, definitivamente, le spalle ad Eboli e a tutto ciò che rappresenta, ma c’è molto di più. Il poeta è proteso verso un tempo differente, nuovo, che richiede un modo diverso di stare al mondo, le sue parole rappresentano uno spartiacque tra tradizione e modernità. La metrica di Scotellaro è quella dell’anima, il suo linguaggio trova nutrimento in una dimensione lontana, antica, quasi onirica; i suoi versi sono impregnati di una grecità che è anteriore alla stessa poesia, i quali diventano cantori dell’altrui atavico travaglio. Il realismo del poeta lucano non scaturisce soltanto dalla sua coscienza politica, ma anche dalla sua fede nelle sorprese che il destino può riservare persino ad un diseredato, dalla solidarietà e dalla pietas che egli sente per ogni cosa oltre che per gli uomini. Idealista, sognatore, ma al tempo stesso concreto, pragmatico come tutti gli utopisti, i quali conoscono così bene la propria realtà e le sue lacerazioni da desiderarne un’altra, migliore, diversa.
Canta la solidarietà, l’amarezza degli ultimi, degli indifesi, sogna una società libera e giusta, crede fermamente nella forza rivoluzionaria delle idee, della cultura, delle parole che mette a servizio della realtà: dimesse, ma potenti, ancelle generose e attente a non elargire doni non meritati. È un grido di dolore, la sua poesia, di ribellione e disapprovazione della civiltà industriale, che come scrisse Pasolini, con le sue luci artificiali ha spento la fioca e intermittente luce delle lucciole, sminuito e polverizzato il mitico, misterioso e magico mondo contadino. L’altrove di Scotellaro è ben definito, riconoscibile, il quale si allontana dalla quotidianità per metterla meglio a fuoco, poi volutamente, vi precipita, per diventare cruda concretezza, perdita, tormento, ansia di un domani che non arriva, ma anche stupore, canto, carezza, conforto, possibilità. Struggente la sua malinconia quando racconta la sua solitudine interiore, quando tenta di soddisfare l’urgenza di dare forma e consistenza al suo sentire, di dislocare la parte più intima di sé nelle cose, nella realtà, negli altri. Purtroppo è andato via troppo presto ed ha portato con sé intatti tutti i suoi desideri e sogni, senza poter sperimentare nuovi linguaggi e adoperare diversi codici interpretativi di una realtà troppo complessa e complicata. La civiltà contadina di cui parla Scotellaro sembra essere scomparsa, ma resta un evidente e profondo disagio sia sociale che economico della società attuale e non solo di quella lucana. Appare notevole il suo contributo nel restituire dignità, voce, spessore, coraggio ad un mondo che attendeva da sempre di “correre all’aria” come avrebbe detto Croce. Pochissimi come lui hanno saputo trasmettere l’urgenza di stare, di esserci, di fare, di trasformare, di partecipare alla grande festa della vita. La sua eredità etica e morale deve essere, a mio avviso, ancora compresa e apprezzata appieno. È stato ciò che ha scritto e ha fatto, ha creduto nella natura, più che nella storia, ci ha suggerito teneramente di coltivare dentro di noi il desiderio e la nostalgia, anche del futuro. La poesia gli ha permesso di costruire ponti solidi, di rendere immortale tutto ciò che è caduco, di rompere l’opacità che caratterizza la vita. Marquez scriveva:” la vita non è quella vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla. “Credo” che tutti dovremmo coltivare il ricordo di Scotellaro come si fa con le cose preziose. Senza il ricordo, senza la memoria noi saremmo nulla.
Enza Berardone |