Con la famiglia si decide di andare a Craco, il “paese fantasma”. Dedicare una giornata, la prima del nuovo anno, alla ricerca di luoghi sconosciuti. Si parte dopo una notte di festa: dolci tipici, spumante, zampone ,lenticchie. Meglio tralasciare tutto il resto, ci si appesantisce solo a ripensare alla lunga tavolata. Tutti in macchina e via per la Valle del Sarmento, la Sinnica, sino al bivio per Tursi. Poi si continua tra paesaggi mozzafiato sino a Craco, a pochissimi chilometri dalla bella Pisticci. Si prende la vecchia strada, tra i tornanti si intravede la Craco antica su un’altura. Si sale tra curve strette, mentre l’occhio scruta la vallata, i campi e i calanchi. In una di queste curve, a poche centinaia di metri dal borgo, un’antica fornace abbandonata dagli uomini ti dà il benvenuto, cerca di resistere allo scivolare della terra e del tempo, fucina di mattoni di creta, per anni riparo di storie, uno sull’altro ad alzare muri di vita sabotata nel tempo. Poi sempre più su, e tra una curva e un’altra Craco compare e scompare, sino a mostrarsi d’un colpo in tutta la sua struggente bellezza. Ci si ferma. Si esce dalla macchina. Ci si prepara a scattare fotografie, tante, una dietro l’altra. Poi si continua sino ai piedi delle vestigia, a pochi metri di un convento che guarda muto le valli.
L’occhio cerca di vedere il più lontano possibile, cerca di entrare nelle case, nelle chiese, nel torrione, nei palazzi. Le gambe vorrebbero ripercorrere quelle strade abbandonate, dove un tempo scorrevano voci, futuro, passioni, fatica, amarezze. Gli occhi si chiudono da soli, giusto il tempo di immaginare i volti affacciati alle finestre, ai balconi di case incollate alla collina che con caparbia continuano a sfidare il tempo e la natura. Si cerca a forza la vita tra quel che resta, si vorrebbe tanto ascoltare il vociare di ragazzi rapiti dai loro giochi correre felici tra il saliscendi delle vie, ma la realtà è fatta di reti arrugginite, di transenne che tengono lontani, di vuoti e di silenzi. Solo il cielo azzurro e la luce di un sole caldo fuori stagione illumina gli anfratti, gli spazi, dando un po’ di speranza e di vita agli antichi blocchi di pietra. Un libro aperto, tra rughe e righe di desolazione, dove si può leggere la fragilità dell’uomo e delle sue cose, l’eterno passaggio di storie che si confrontano con il tempo e l’infinito, fatto in certi momenti di polvere e silenzio. Ci si sente piccoli, fragili, di passaggio, il tempo scandito da un colpo dell’occhio che veloce si chiude e si apre al mondo. Tra quelle nude pietre, si incontra da vicino l’umanità nuda davanti all’eterno mutare del giorno e della notte, la fragilità di ognuno è in ognuna di quelle case dirute consolate da rami secchi e cespugli. Ci si guarda dentro, si riflette, quel paesaggio diventa specchio dell’anima e della vita che scorre veloce. Solo più giù, girando il volto e la macchina, la desolazione fa un passo indietro e un po’ ci si rianima, la speranza, come giusto, prende fiato, tra le vie e le case bianco e gialle, tutte uguali, della nuova Craco.
Vincenzo Diego
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