A Trebisacce, in provincia di Cosenza, ieri sera, presso la “Fornace”, Casa della Cultura, si è parlato della sfortunata poetessa lucana Isabella Morra. Incontro molto partecipato, tantissime le presenze, coordinato dal giornalista Franco Maurella. Il sindaco della cittadina jonica Alex Aurelio, oltre ai saluti istituzionali, ha ringraziato gli organizzatori e i relatori per l’importante pagina di storia e di cultura. Giuseppe Truncellito, assessore alle politiche culturali, ha portato i saluti dell’intera comunità di Valsinni, una comunità che negli anni si è stretta attorno alla loro illustre poetessa, raccogliendo quel grido che più di disperazione e di solitudine è un grido di libertà, di lotta, di speranza. Poi gli interventi dell’avvocato Roseti, di Concetta Cardamone, di Filippo Capellupo, Antonello Grosso La Valle, Manuela Felice, Gennaro Olivieri, Vincenzo Rinaldi, proprietario del castello dei Morra e di Vito Epifania. A seguire, il critico letterario e scrittore Giorgio Delia ha parlato della ricerca storico-bibliografica di Pasquale Montesano, partendo da un suo viaggio fatto a Napoli, ospite di Alda, figlia don Benedetto Croce, nel palazzo-biblioteca, tempio della memoria e del sapere, dove in tante di quelle carte, libri, documenti si incontra anche Isabella e tante altre storie di donne e di uomini che hanno contribuito a creare la coscienza del nostro Paese. Una descrizione minuziosa, dettata da pause, ricordi vivi, capace di coinvolgere tutti, accomunati in un religioso silenzio, dove l’attenzione pretendeva sapere, una matassa che si trasforma in filo di Arianna, prezioso, che traccia la strada, indica la via verso la luce, o ancora, un Virgilio tra le anime dannate. Man mano il racconto diventa storia di tutti, intima, accattivante, la mente rapita da suggestioni letterarie, concrete, vichiane, senza tempo, dimostrando nella fornace di mattoni che Isabella ha vinto la morte attraverso l’amore e la poesia. Antonello Savaglio parla di Isabella Morra alla corte dei Sanseverino, mentre Pasquale Montesano, autore del libro “La vera storia di Isabella Morra. Vita e morte di una poetessa”, racconta il suo impegno alla ricerca di verità taciute, nascoste, ha cercato di ricostruire la storia e la scena della breve vita di una giovane sognatrice. Scena inquinata dai discendenti, il motivo è semplice, l’onorabilità di una famiglia potente, illustre che non doveva macchiarsi di un sangue giovane, innocente, capace di recidere poesia e sogni, al di là dei monti, delle foreste, oltre quel mare che aveva rubato per sempre la sua stessa carne, il padre Giovan Michele. L’autore non si ferma, scava, scava affondo nella vicenda umana, parla di Isabella reclusa, ma anche dama di compagnia di Felicia Sanseverino, dei cenacoli culturali, dell’amicizia stretta con Irina Castriota Scanderbergh, pronipote del mitico condottiero albanese Giorgio, ma anche dell’amicizia fatale con Diego Sandoval de Castro, poeta e visionario, signore di Cosenza e di Bollita, l’odierna Nova Siri, ucciso dai fratelli di Isabella nei pressi di Nohe, l’odierna Noepoli. Attraverso il suo saggio, vuole riscattare quel “muto silenzio” nel quale si consumò la breve vita di una giovane che cantava l’ amore e il destino avverso, mentre al “Torbido Siri” affidava nei momenti di maggiore angoscia il grido di dolore.
Vincenzo Diego
ISABELLA MORRA
CON BENEDETTO CROCE, OLTRE BENEDETTO CROCE
Se si facesse una sia pur rapida rassegna dei lavori di Pasquale Montesano, emergerebbe che l’argomento “Isabella Morra”, nell’economia complessiva, è decisamente dominante, per non dire preponderante. Se, anziché l’oggetto di una ricerca storica, si fosse trattato di un paziente, avremmo avuto agio a parlare di un caso di ‘accanimento terapeutico’. Qualora si indagasse sui motivi di questa predilezione, si scoprirebbe che alla base, in comune fra soggetto e oggetto della ricerca, vi è un luogo, quello di nascita: Valsinni, in quel di Matera.
Non occorre essere provetti globe-trotters, per avvedersi di quanto nel medesimo, da un secolo (o poco più), lentamente ma sempre più convintamente (da ultimo grazie anche all’operato degli adepti del Parco letterario), ci si sia industriati a fare della poetessa un vero genius loci, tanto che le parole (si stava per dire il grido represso) dello scarno canzoniere, a sfida del remoto silenzio dei secoli, risuonano quali voci echeggianti in ogni angolo e anfratto del paesaggio, ben oltre le mura del pittoresco maniero che lo domina.
Fondativi, anche per le investigazioni di Pasquale Montesano, sono stati il saggio e il commento di Benedetto Croce. Quello stesso saggio che ancora oggi fa bella mostra di sé al centro delle Vite di avventure, di fede e di passione appena ripubblicate da Bibliopolis nel quadro dell’«Edizione Nazionale delle Opere» (Volume, sia detto incidentalmente, con la Storia d’Europa, da ritenere fra i vertici della prosa critica primonovecentesca). A ulteriore inciso, si aggiunga che quel medesimo, circa un quarto di secolo fa, quasi a saggiarne la tenuta, fu il fondamento primo (locupletato dalle carte dell’archivio messe a disposizione con generosa liberalità da Alda Croce) di una mostra documentaria allestita nel salone del Castello morriano (traccia della quale è nella guida Benedetto Croce. Da Napoli a Valsinni sulle orme di Isabella Morra edita da Archivia Edizioni nel 1999).
Sin dalle prime pagine, si capisce che La vera storia di Isabella Morra. Vita e morte di una poetessa (Altrimedia Edizioni, 2022) è altra cosa dagli istant books nati e destinati a durare nello spazio di un mattino. Piuttosto sembra rientrare in quella tipologia di testi concepiti come una glossa continua, una lunga, perpetua nota che si avvita a penetrare i segreti di un verso, un emistichio, una parola (chi non ha sognato di scrivere libri siffatti?). Nel caso di specie, i versi che hanno (come piaceva dire a Contini) ‘salato il sangue’ allo studioso sono quelli del sonetto IV secondo la lezione e il commento che Croce, nel 1929, ha consegnato alle austere pagine laterziane, prima della rivista, poi dell’estratto (a posteriori, nel 1983, riproposte nella più forbita plaquette della «Memoria» di Sellerio editore, da cui si cita, pp. 62-3 e 85): «Quanto pregiar ti puoi, Siri mio amato, / de la tua ricca e fortunata riva, / e de la terra che da te deriva / il nome, ch’al mio cor oggi è sì grato; // s’ivi alberga colei, che ’l cielo irato / può far tranquillo e la mia speme viva, / malgrado de l’acerba e cruda Diva, /c’ogni or s’esalta del mio basso stato! // Non men l’odor de la vermiglia Rosa / di dolce aura vital nodrisce l’alma / che soglian farsi i sagri Gigli d’oro. // Sarà per lei la vita mia gioiosa, / de’ gravi affanni deporrò la salma / e queste chiome cingerò d’alloro». Più nel dettaglio, il riferimento è al pronome «colei» del v. 5. Non è solo per una deformazione professionale se al fiscalissimo Montesano (al di là degli otia letterarî, aduso ai ben più gravi negotia delle agenzia delle entrate) non poteva bastare la scarna e troppo generica annotazione del filosofo partenopeo («Una signora che abitava in Senise») data a correzione di un’erronea congettura del De Gubernatis.
Se Croce distingueva la biografia fondata sulla più rigorosa ricerca storica dal biografismo delle biografie romanzate e, rifacendosi a Vico, precettava che l’imperativo categorico dello storico è quello di attenersi al vero e al certo (non è casuale se il primo dei due termini campeggi come prima parola sulla copertina di questo libro), Montesano, con rigorosa applicazione del metodo, preferisce dare risonanza ai riscontri storici e documentali (dei quali, al solito, è doviziosamente fornito), lasciando poco margine alle illazioni, diffidando delle sabbie mobili della fantasia (che per sua natura tende a ‘favoleggiare’). L’obiettivo è quello di correggere l’errore e dare luce alle «comprovate verità» foriere di «nuove conoscenze».
Il modo di procedere è ipotetico-deduttivo, per ipotesi e verifiche, per congetture e confutazioni, tale da rendere più avvincente la lettura (quasi fosse un giallo). Fissare con certezza e verità dati e date, per rendere meno precario il discorso, diventa così l’obiettivo primario. A tale scopo, la ricerca delle fonti archivistiche finisce per essere il sine qua non dell’operare. Si aggiunga che all’autore non sfuggono i limiti delle medesime, per questo ne cerca la validazione nella ‘durata’, magari per scoprire l’inciampo rispetto a quanto i ‘vincitori’ hanno voluto che si salvasse dal sommerso.
La preponderanza dell’argomento, alla quale si faceva cenno in apertura, non si è mai tradotta per Montesano, in un ‘eterno ritorno dell’uguale’. Piuttosto, grazie a un lavoro lento, paziente, tenace, passo dopo passo, di volta in volta, ha saputo trovare la ‘maglia rotta nella rete’ attraverso la quale intravedere e svelare verità coperte dall’oblio dei secoli e dalla damnatio memoriae degli uomini (nel caso in oggetto, ne è prova persino la mancata reiterazione del nome nella genealogia familiare).
Il centro del libro è la rilettura critica della fonte principale, punto di partenza anche del discorso di Croce, la Familiae nobilissimae de Morra historia a Marco Antonio de Morra regio consiliario conscripta (1629), della quale è autore il figlio di Camillo, fratello minore di Isabella. Montesano ne mette alla prova l’attendibilità e in qualche punto spalma aporie sulla sua fondatezza. Fra l’altro si chiede: perché tante reticenze sul nonno, Giovan Michele, sulla sua scelta filofrancese, sulla conseguente fellonia rispetto al principe di Salerno, Ferrante Sanseverino, di cui era suffeudatario, sul suo perseverare a vivere da fuoriuscito alla corte di Francia? perché in essa non v’è traccia dei legami (solo professionali?) dei Morra di Favale (per la scelta del padre filofrancesi) e il principe Pietro Antonio Sanseverino (filospagnolo)?
Montesano risponde a queste e ad altre domande da biografo e storico, non solo per amor loci, ma ostinatamente per amor veritatis. Grazie alle sue ricerche oggi conosciamo con maggiore certezza la nascita («non oltre il 1520»), l’educazione e la formazione (avvenute non più solo nel castello di Favale col pedagogo al servizio della baronia), la vita (ora sappiamo che non è stata sempre ‘reclusa’, ma almeno dal 1543 è stata dama di compagnia di Felicia Sanseverino, figlia di Pietro Antonio, principe di Bisignano, e di Giulia Orsini, accompagnandola negli spostamenti tra i feudi di famiglia e nelle colte frequentazioni), la morte (il 1546, tra la fine di giugno e gli inizî di luglio, dopo i festeggiamenti per il matrimonio del fratello primogenito, Marco Antonio), la famiglia e la causa criminum (se esce scagionato il fratello Cesare, si fonda più di un dubbio sull’innocenza di Marco Antonio), il contesto (il Sud dell’Italia dilaniato dalle guerre).
Ma veramente serve la biografia per comprendere la poesia? quella di Isabella Morra in particolare? Qualche anno fa, la risposta non sarebbe stata così scontata, specie in tempi di formalismi e strutturalismi imperanti. Se è vero che la poesia, come si diceva allora, è a+b+c+x, grazie al lavoro di Montesano quella di Isabella Morra ha oggi qualche incognita in meno. Viceversa, il testo, la forma del testo, è tutto? Il mio professore, Luca Serianni, al quale va un grato ricordo, insegnava che la forma non è tutto. È solo il 95%. Da qui derivava la necessità di quel rimanente 5% per comprendere a pieno il testo, quello poetico in particolare. A tale fine, fissare i paletti della biografia, fare i conti con la storia, diventa indispensabile per dare senso (in tutta la polisemia di questa parola).
Non è molto quello che dell’opera (come della tragedia personale) di Isabella Morra ci è dato conoscere. Quel poco che si è salvato dal naufragio della storia ha tanto il sentore di un messaggio in bottiglia. Bastano però quei tredici componimenti a distinguere l’originalità e l’autenticità della sua voce. Ciò che la connota maggiormente è la profondità e l’intensità con cui ancora oggi vibra. Qualora la si ponesse a confronto con quella di una delle altre poetesse del primo Rinascimento, a titolo esemplificativo, con quella del sonetto d’esordio delle Rime di Gaspara Stampa, «Voi, ch’ascoltate in queste meste rime», risalterebbe subito che, a marcare la sua differenza, da donna, non ha espresso il suo sentire per il tramite del linguaggio di un uomo (Petrarca), così che, pur avendo, probabilmente il suo petrarchino, come tutte le gentildonne del tempo, coi suoi versi, ha potuto dare eco al dramma endofasico di una condizione femminile tutt’altro che episodica negli intricati contesti familiari e socio-politici di allora.
Giorgio Delia
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