Fuoco, aria, acqua,terra, gli elementi della natura che danno forza e vita alle varie forme del creato. Qui a San Paolo Albanese ne aggiungono un quinto, la musica, quella delle surduline, delle ciaramelle, delle zampogne. Ecco allora che prende forma la IV edizione del “Festival Antiche Radici”. Tre giorni intensi, dal 30 settembre al 2 ottobre, salutati dal Sindaco, Mosè Antonio Troiano e dalle comunità della Valle del Sarmento. Troiano chiede aiuto alla Regione, chiede attenzioni e fondi per realizzare un laboratorio permanente, in grado di preservare un patrimonio inestimabile, e creare opportunità di lavoro. Un calendario fitto di incontri, libri. In scena l’Ensemble Meridies, maestri, studiosi, corsi di danza e di strumenti legati alle tradizioni popolari, a quella cultura subalterna magnificamente studiata, tra gli altri, dal compianto Luigi Maria Lombardi Satriani. Giorni di cultura e mito, giorni che hanno raccontato un vissuto fatto di lavoro e sacrifici; lavoro tra boschi, monti e vallate, l’unica vera ricchezza la natura, da sempre amica ed alleata. Suoni che raccontano il lavoro di donne e di uomini che hanno suggellato un patto con Dio e il creato. Suoni che raccontano l’animo di ognuno, che hanno bisogno di fiato, quel fiato che viene da dentro, dal profondo. Nella pelle di capra, che tanto ricorda il feto, tutto inizia a formarsi e man mano diventa carne, sangue, vita. Un soffio vigoroso nella canna, poi nell’otre sino a far vibrare l’ancella, liscia, levigata, e veloce attraversa la campana, le canne, i fori, segnati dalla cera d’api, e il soffio diventa suono, armonia, note invisibili, capaci di tenere unita da sempre una comunità antica, venuta da lontano. Un Paese che balla, che canta, che ha ancora voglia di esprimersi come secoli fa: musica, gesti e parole, parole che diventano canto, portato lontano dal vento, a momenti leggero a momenti impetuoso, mentre i corpi prendono vigore e iniziano a danzare. Un ciclone di mani, di sorrisi e di sguardi. Un cerchio che gira, gira, visi che si guardano, corpi che si sfiorano e che d’un tratto si danno i fianchi, le spalle, che prendono i colori dell’arcobaleno, quei colori che da sempre sapiente mani hanno saputo colorare tessuti preziosi, ricamati d’oro e d’argento, sollevati da pizzichi di mani. Qui, nelle piazze, nelle vie, in amene corti si viene ancora rapiti dai colori e dalle forme della mitica peonia peregrina (Banxuma) o dai profumi del basilico e dalle foglie di alloro, “Dafna”, la ninfa che conquistò il cuore di Apollo, innamorata della terra e della libertà. Un mito che bene rappresenta questa gente forte e gentile, fiera e onesta. Una vita semplice, dove solo il cielo segnava le giornate, un cielo che bisognava interrogare nel silenzio della notte, da sempre un libro aperto da leggere alzando lo sguardo verso l’infinito, che d’un tratto iniziava a parlare, complici le stelle e la luna, e solo allora, porgendo l’orecchio, si capiva se seminare, uscire con le greggi o restare tra le mura. Ritmi ancestrali, come i suoni delle zampogne, capaci di far vibrare i sentimenti di chi vuole ascoltare con rispetto la storia di queste genti, da sempre figli prediletti di Dio e della natura.
Vincenzo Diego |