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'Il Buco' di Frammartino, tra natura e cultura |
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19/10/2021 | Finalmente, nella sala del cinema Columbia di Francavilla in Sinni, con amici dell’associazione Gruppo Lupi, si è potuto visionare l’attesissimo film di Frammartino Il buco, premiato al Festival del Cinema di Venezia (Premio della Giuria). Il mio “incontro” con Frammartino avvenne nel 2010, con la visione del film “Le quattro volte” in un cinema di Roma, con pochi presenti in sala, film che mi colpì profondamente e al quale dedicai una recensione sul mio blog. Pochi anni dopo ebbi modo di conoscere di persona - tramite l’amico Antonio Larocca, speleologo e guida del Parco, coautore del film Il buco - anche il regista che partecipò al trekking “Natura e cultura sui sentieri dei briganti” in varie edizioni, a cui collaborai come guida escursionistica. Ospitammo poi Frammartino a San Severino Lucano al Festival dell’Escursionismo nel 2018, dove presentò il suo documentario sugli “uomini albero” di Satriano. Ho citato questi aneddoti personali non a caso, perché il film Il buco è un’opera che nasce dalla collaborazione del regista con le comunità locali e con figure di spicco che vivono e promuovono il territorio , come appunto possono essere guide escursionistiche e speleologi come Antonio Larocca, senza il quale tale film non si sarebbe potuto realizzare. Questo è il primo aspetto del film che va sottolineato e che si ritrova anche nella scelta di alcuni attori, molti dei quali non professionisti ma “presi” dai paesi del Pollino, come San Lorenzo Bellizzi e Terranova di Pollino: tale è il protagonista “umano” più importante del film, l’anziano pastore su cui si concentrano gli unici primi piani del regista. Ma ci sono altri esempi, come il medico del film che è effettivamente il medico di San Lorenzo Bellizzi (Leonardo Larocca). Una scelta che per certi versi ricorda il modo di fare cinema di un “mostro sacro” come Pasolini, che metteva in scena attori presi dalla strada. Un film perciò “collettivo” ma allo stesso tempo molto “individuale”, perché dalla sua visione traspare lo stile unico che contraddistingue la poetica cinematografica di Frammartino: per citare ancora Pasolini, parliamo di un cinema “di poesia” più che “di prosa”, almeno secondo il mio punto di vista. Essendo un’opera fortemente simbolica, Il buco si presta a varie interpretazioni, pur in una cornice narrativa esplicata dalla trama: la storia di un gruppo di speleologi che dal Nord Italia vengono ad esplorare le grotte del Pollino, e in particolare l’Abisso del Bifurto, in aree “dimenticate”, toccate appena dal miracolo economico, in un mondo agropastorale per certi versi ancora ancestrale, nonostante le incursioni della “modernità” siano già evidenti (come rappresentato dalle scene degli abitanti locali davanti ad una televisione, in una piazzetta). E qui non si può non citare un altro grande regista del cinema italiano, il Vittorio De Seta de “I dimenticati”, noto per aver girato sul Pollino un documentario sull’antico rito arboreo della festa della Pita ad Alessandria del Carretto, il cui cinema per certi versi si avvicina all’approccio di Frammartino: i rimandi a questo regista riguardano lo stile distaccato, documentaristico, quasi freddo, delle riprese. Ma il carattere documentarista de Il buco si ferma appunto agli approcci stilistici, perché il film presenta ovviamente anche aspetti di finzione, ben evidenti in alcuni “fotomontaggi” del film o nella scelta – assolutamente felice a mio avviso - di ambientare l’ingresso dell’Abisso del Bifurto (profondo circa 700 m e situato nel comune di Cerchiara di Calabria) ai Piani di Pollino, dove è invece localizzato l’inghiottitoio del Trabucco che misura pochi metri . Il Trabucco, oggetto nel 2016 di un campo speleo al quale partecipammo come Gruppo Lupi, rappresentò una specie di “sogno” per gli speleologi locali, quello di trovare una via che portasse al mondo sotterraneo delle alte quote del Pollino, ancora ignoto. Frammartino partecipò al campo speleo con la curiosità dell’artista, che osserva e riflette: perché – sono testuali parole del regista - con tutta la meraviglia dei Piani di Pollino che li circondava, gli speleologi si infilavano in quel “buco”, pieno di mosche? Cosa cercano, qual è il senso della speleologia e dei luoghi ignoti e selvaggi? È questa una delle domande che hanno dato evidentemente vita al film, che si sviluppa attraverso contrasti simbolici: quello tra il “miracolo economico” della tecnica (la modernità dei grattacieli che appare nelle scene iniziali) e i luoghi più selvaggi del pianeta, ancora inesplorati, che poi è anche il contrasto tra la ricerca del progresso e la ricerca di un mondo selvaggio e ancora ancestrale. Ma un altro contrasto simbolico è quello tra gli speleologi e il mondo contadino, che vede con stupore e al tempo stesso incomprensione quei giovani del nord che si accampano in montagna per dare corso all’esplorazione di “un buco”, appunto. Non a caso tra speleologi e pastori non viene mostrato alcun incontro, pur condividendo essi gli stessi spazi. La speleologia è cioè stata in qualche modo essa stessa espressione del mondo moderno, come anche il trekking e il turismo. E appunto sono le comunità locali a fare da mediatore, con alcune figure rappresentative, le guide di montagna o speleologiche che siano, che via via nel corso dei decenni hanno cercato di conciliare gli aspetti del mondo agropastorale, dal quale anch’essi provenivano con le esigenze della modernità, in un equilibrio sempre precario ma indispensabile. Sono così sorte associazioni speleologiche locali e i figli di pastori e contadini sono diventati magari guide professioniste.
In alcuni articoli è stato detto – con una sorta di retorica campanilistica che sinceramente si poteva evitare - che il film di Frammartino è un film sulla Calabria e i calabresi: è questa un’interpretazione un po’ fuorviante, sia perché le riprese si sono svolte anche in Basilicata e sia perché ad essere protagonista è il Pollino in particolare e la natura selvaggia in generale, con i suoi abissi, pianori, cime e pareti. Un film cioè integralmente “pollinesiano” , ma contemporaneamente di carattere universale, dove gli stupendi paesaggi che si vedono potrebbero fare riferimento ad un qualsiasi luogo” remoto” della Terra. Un film dove a parlare sono le immagini, nei fatti privo di dialoghi… o meglio privo di dialoghi comprensibili. Un film privo di musica, dove la colonna sonora principale è rappresentata dal gergo ancestrale del richiamo del pastore verso le sue vacche o dal rumore del vento e dai suoni che echeggiano nelle profondità degli abissi sotterranei. Il buco si presta perciò essere visto da chiunque, di qualsiasi nazionalità o lingua senza bisogno di sottotitoli o di doppiaggio. Anche per questo è un film che potrà lasciare delusi molti telespettatori, abituati al montaggio e alla sceneggiatura del cinema convenzionale. È un film sicuramente che non piacerà a tutti, perché richiede un approccio alla visione diverso: bisogna lasciarsi catturare dalle sue atmosfere scenografiche, concentrarsi sugli aspetti visivi, sulle inquadrature, luci ombre e suoni… e sul simbolismo che evocano, anche perché la trama da quel che si è capito è abbastanza scarna. Assieme ai paesaggi e all’ambiente ipogeo, come già accennavo è l’anziano pastore, interpretato da Antonio Lanza, l’altro protagonista del film: la macchina da presa si concentra spesso sul suo volto, sulle sue espressioni. Il pastore è un elemento del paesaggio e dell’ambiente e non a caso si vede spesso seduto ai piedi di un pino loricato: le sue rughe evocano la corteggia del pino pluricentenario, come un pino loricato vive in montagna ed è in montagna che si compierà il ciclo della sua vita. Un uomo che evoca evidentemente quell’armonia antica con la natura propria dei popoli indigeni, il cui impatto sugli ambienti naturali seppur presente non è mai stato devastante. Il patriarca arboreo e l’anziano pastore convivono pacificamente, sono parte dello stesso paesaggio. Anche qui c’è un sistema di rimandi, per chi conosce a fondo l’opera di questo regista: il confronto con il film “Le quattro volte” di Frammartino è spontaneo, si ritrova il senso di quella connessione tra i regni viventi e tra il vivente e il mondo minerale, che era il tema del suo primo capolavoro… e a dir la verità insuperato, visto che il secondo lavoro più importante del regista non riesce a raggiungere quelle altezze .
Il buco è anche l’esempio di un “cinema d’azione”: girare le scene nell’Abisso del Bifurto, in un abisso di centinaia di metri, ha richiesto mesi di lavoro ed è stato possibile solo grazie all’ausilio di speleologi esperti come i soci del Gruppo Speleologico Sparviere e altri, coordinati da Antonio Larocca. Una sfida di natura “fisica” anche per il regista Frammartino, il quale, per girare il film non ha fatto altro che diventare anch’egli uno speleologo. Sempre per citare registi famosi, non può non venirmi in mente il grande Werner Herzog, regista che trasformava i set cinematografici in imprese avventurose, spesso in ambienti ostili, dove finzione e realtà si confondono, in cui gli attori rivivono sofferenze, emozioni e difficoltà dei protagonisti storici (nel caso de Il buco sono i pionieri della speleologia degli anni Sessanta) che essi rappresentano. Un film che rappresenta un’impresa e contemporaneamente una sfida per il cinema: il buio è l’antitesi del cinema, fotografia significa appunto “disegnare con la luce”, mentre le riprese si svolgono in un regno dominato dall’oscurità. A tal proposito non si può che sottolineare un’altra scelta stilistica efficace del regista, ovvero l’aver voluto girare con la luce naturale, quella delle lampade frontali al carburo o la luce delle pagine dei giornali delle riviste come Epoca, accese per illuminare gli abissi sotterranei ancora ignoti. Pochi sono i film rilevanti a tema speleologico, si potrebbe citare forse solo “Cave of forgotten dreams”, del già ricordato Werner Herzog.
Come tutte le imprese umane, pure quella speleologica è avvolta da un senso di finitudine. Anche la grotta più profonda ha un suo termine, che negherà il passaggio all’uomo. E verso la fine del film questo concetto si nutre ancora di parallelismi, come il paragone tra la conclusione di una vita umana e quello di un’impresa speleologica. Ma l’essere non è un apparire dal nulla per tornare nel nulla, l’esclusività di una vita è in qualche modo eterna, è parte della ciclicità naturale.
Il buco è un film “filosofico”, ma negli aspetti pratici è un’opera che contribuirà a far conoscere il Pollino e i suoi paesaggi, dando un contributo alla crescita culturale ed economica dei territori. C’è da sperare che questo film sia anche occasione di sensibilizzazione, si spera cioè che Il buco aiuti a comprendere il valore della natura selvaggia del Parco Nazionale del Pollino e la necessità della sua preservazione per le future generazioni. E la possibile candidatura del Pollino come location cinematografica deve indurci a considerare che la produzione di un film girato in natura deve essere attenta ai possibili rischi derivanti dall’impatto ambientale dei set cinematografici, proprio perché le riprese si svolgono in ambienti delicati dal punto di vista naturalistico.
Il cinema non è slegato dalle dinamiche sociali e il film di Frammartino ha mostrato che può entrare in netta connessione con i territori e con le pratiche che in esso si svolgono. Il cinema si alimenta di storie, suggestioni, aneddoti e le nostre stesse vite possono trarre ispirazione dal cinema, come per qualsiasi opera d’arte. In proposito vorrei concludere questa recensione con un significativo passo tratto da uno scritto dello speleologo Beppe De Matteis, che fu tra gli speleologi piemontesi che aprirono la strada alla scoperta delle grotte nel Meridione. Per De Matteis la speleologia non era solo un fatto scientifico, ma rimandava a dei significati culturali, al contributo che essa può dare all’arte: “Si tratta di restituire il significato originario alla parola LOGOS, che entra nella seconda parte di SPELEOLOGIA. Non scienza delle grotte, ma DISCORSO, cioè comunicazione. Speleologo dovrebbe essere chi, vivendo a contatto con il mondo sotterraneo, comunica ciò che, grazie a questa sua esperienza particolare, vede, sente, pensa o prova, attraverso tutti i mezzi di espressione capaci di essere capiti dagli altri. Il contributo dello speleologo non dovrebbe andare tanto a beneficio della Scienza, quanto più in generale, della Cultura. Che ogni aspetto della cultura possa essere arricchito dall'incontro con il mondo sotterraneo mi pare ovvio: dalla meditazione sulla condizione dell'uomo (...), al reperimento di materiali, suoni, forme nuove per la musica e le arti figurative, passando per la fotografia, il cinema, il son-et-lumiere e via dicendo, comprese tutte le forme letterarie di espressione, e in particolare la descrizione razionale dei fenomeni naturali, cioè quanto va sotto il nome di speleologia scientifica ed è rivolto ad appagare la legittima curiosità della mente umana (e niente di più)”. (Beppe Dematteis, 1969 ). Un discorso valido per la speleologia e per tutte le attività che consentono una connessione dell’uomo con gli ambienti naturali…
Saverio De Marco
Presidente Gruppo Lupi San Severino Lucano
Guida Ambientale Escursionistica
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