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Apologia di Platone |
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20/08/2012 | È ormai opinione comune, o perlomeno consolidata nei trattati, che i due grandi filosofi greci, Platone ed Aristotele, abbiano avuto non solo posizioni divergenti su quella che verrà definita la teoria delle idee ma addirittura contrapposte al punto che le parole dello stagirita nell’Etica Nicomachea sono state per secoli interpretate come un’aperta critica a questa teoria. Forse lo è stata per davvero e non sappiamo se per scelta o solo per una certa mancanza di acume e di visione di insieme da parte di Aristotele. Quest’ultimo incarna infatti la figura dello scienziato che diviene filosofo soprattutto per la formazione ricevuta. Il suo maestro invece ha una naturale mente filosofica ed impersonalizza l’essenza stessa della filosofia. Aristotele tiene a sottolineare l’incongruenza che viene a determinarsi tra l’infinità delle singole forme e del naturale cambiamento che in esse si verifica, con la teoria del modello ideale. È interessante a questo proposito ascoltare direttamente dalla voce dell’autore il colpo di stiletto indirizzato alla volta del maestro: “quei che introdussero tale dottrina, non ponevano idee per le cose in cui dicevano esser un prima e un poi (perciò appunto neppure per i numeri costruivano un’idea). Ma del bene si parla e nella categoria dell’essenza e in quella della qualità e in quella della relazione…”. Crediamo che qui nasca l’equivoco e, secondo il punto di vista che adesso proporremo, l’affondo di Aristotele finisce completamente fuori dal bersaglio. Platone pone al centro della propria filosofia, come aveva già fatto Socrate prima di lui, l’uomo e il proprio individuale percorso di ricerca. Nel porre al di fuori della realtà tangibile l’oggetto vero di questa ricerca non è affatto scontato che Platone intendesse porre fisicamente le idee nell’iperuranio o affermare in senso concreto che ciò che è reale venga plasmato su di un modello ideale ma appare più plausibile che esso volesse invece porre ad una distanza irraggiungibile il traguardo della conoscenza vera così che l’ uomo, inteso sia individualmente che come umanità, piegasse la propria esistenza alla causa della ricerca. Il percorso della scienza, alla quale è assegnato il compito di indagare su di un qualcosa tanto perfetto e staccato dai sensi, risulterebbe così inesauribile proprio come la distanza che separa, nella immagine che Platone ha creato, il mondo reale da quello ideale. L’irraggiungibilità di una conoscenza completa traspare anche nel mito dell’auriga e nella stessa reincarnazione dell’anima costretta a ritornare al mondo materiale solo per accrescere il proprio livello di conoscenza. Una tale interpretazione del pensiero platonico è supportata anche dall’atteggiamento che lo stesso Platone assume nei confronti delle specifiche branche della conoscenza non disdegnandone alcuna ma considerandole semplicemente un pratico strumento per la ricerca e non come il fine della stesa . È del tutto evidente che Platone pone, a nostro avviso correttamente, la natura umana come il centro verso cui tutta la conoscenza debba convergere. Il passaggio successivo è immediato: l’uomo sfrutta la conoscenza per se stesso e lo fa raccogliendo in se il sapere e facendolo divenire scienza. Il sapere conduce l’uomo ad un ampliamento della visione del mondo e quindi necessariamente al bene nel quale ognuno trova la propria felicità. Se così non fosse e la conoscenza non servisse a soddisfare una esclusiva esigenza della natura umana sarebbe difficile spiegare tanto impegno e devozione riversato in questo scopo nel corso della storia. Il concetto che la crescita intellettiva porti al bene è condivisibile se si considera che questo, pur rappresentando un valore concettuale puro, prende vita e forma concreta nelle opere del filosofo che altro non sono se non l’estrinsecazione di un qualcosa di reale, da un punto di vista ontologico, perché presente nella mente. Per chiudere il cerchio e dimostrare come l’uomo, e nient’altro, debba rappresentare l’origine e il fine dell’intero processo di ricerca si fa notare come il bene e la felicità possano essere considerati, praticamente, come gli elementi caratterizzanti l’istinto di sopravvivenza e conservazione della specie e tutto ciò che va in quella direzione conduce appunto a quei valori e viceversa. Tanto più il singolo individuo riesce a staccarsi dalla propria individualità abbracciando l’ottica più generale del bene comune maggiori saranno le possibilità di realizzare il proprio benessere e la preservazione della specie. Aristotele invece pone la filosofia tra le scienze ed afferma che tutta l’attenzione deve essere rivolta alle verità riguardanti l’essere sostanziale indagandolo senza sosta con metodo scientifico. È evidente che egli faccia convergere nella filosofia ciò che Platone riconduceva all’uomo restringendone e menomandone la componente essenziale dato che ci risulta difficile immaginare una scienza senza l’uomo. Aristotele quindi, comportandosi da scienziato inizia e termina il suo discorso nell’ambito delle scienze non considerando da dove queste nascano e per quale scopo. Un tale approccio alla ricerca lo conduce a concentrarsi solo su ciò che si trova al di fuori dell’uomo e del campo dei valori attribuendo a quelle “verità” un valore assoluto. L’impressione che ne abbiamo ricevuto è che a livello sostanziane non vi sia molta differenza tra i due grandi Maestri riguardo alla importanza riservata alla ricerca come mezzo per il raggiungimento della conoscenza se non per il fatto che la filosofia di Aristotele escludendo il fine ultimo della scienza, l’uomo, perda in estensione ciò che guadagni in profondità. Non sappiamo se Aristotele preferisca non vedere o ignorare il punto di vista del suo Maestro ma sta di fatto che con uno sforzo di fantasia avrebbe certamente potuto evitare una innegabile caduta di stile.
Antonio Salerno
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