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A Moliterno in ricordo della strage di Capaci |
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23/05/2012 | Viene presentato in serata al Circolo Culturale Unione di Moliterno il libro del direttore Del Quotidiano della Basilicata , Paride Leporace, “Toghe rosso sangue” (Edizione Citta del Sole), che ricostruisce il cammino professionale ed umano dei magistrati uccisi in Italia dal 1969 ad oggi. Non un’inchiesta, ma un racconto cronachistico con cui si vuole ricordare uomini che hanno dovuto sacrificare la propria vita in nome del vessillo della giustizia. Ventisette vite il cui sangue è stato macchiato dalla ferocia della criminalità organizzata e del terrorismo politico. E ricordarle (o strapparle, alcune di esse, all’abisso dell’oblio) genera, tra altro, un senso di sgomento misto ad un sentimento di colpa. Come se la coscienza del Paese avesse abbandonato al loro tragico destino questi tutori della giustizia. Il libro di Leporace - che di recente ha ispirato anche una messinscena portata nei teatri italiani (con consenso di pubblico e critica) da Giacomo Carbone, Francesco Marino e dalla compagnia “Les enfants terribles” – viene presentato a Moliterno nel giorno in cui ricorrono i vent’anni dalla strage di Capaci in cui rimasero senza vita, con gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Rocco Montanaro, i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. Un attentato di matrice mafiosa compiuto secondo una strategia libanese ( utilizzati e fatti deflagrare circa cinquecento chili di tritolo), entrato nella storia del nostro Paese e non cancellato più dalla memoria degli italiani. Dopo vent’anni cosa si deve dire ancora di quella tragedia e del lavoro compiuto da Giovanni Falcone nel mettere allo scoperto
l’invulnerabile sistema mafioso e la sua complicità con pezzi delle Istituzioni. In un articolo uscito l’altro ieri sul Corriere della Sera il giudice Gian Carlo Caselli ha sintetizzato i risultati dell’azione investigativa di Falcone, Borsellino e di quel pool antimafia diretto da Antonino Caponnetto. Ha ricordato Caselli che, grazie ai giudici del pool, cinquecento imputati furono rinviati a giudizio ed inflitte loro pene per quasi tremila anni di carcere. Dunque, vincente sul piano della giustizia furono Falcone e i suoi colleghi, ma messi alla porta e “completamente spazzati via” proprio nel momento in cui iniziarono ad impicciarsi degli affari sporchi dei colletti bianchi, delle alleanze con la criminalità organizzata dei potenti cugini Salvo e dell’ex sindaco del capoluogo siciliano, Vito Ciancimino. “Palermo non amava Falcone” – riporta ancora nelle sue pagine Leporace – e la dimostrazione furono la critiche che gli riversarono addosso. Secondo i suoi detrattori peccò di professionismo dell’antimafia, abuso politico della giustizia e uso distorto dei pentiti. Caddero così su di lui le calunnie e, prima che in quel 23 maggio del 1992 il suo corpo saltasse sotto il fuoco del tritolo, fu fatto fuori in vita da pezzi dello Stato e da una stampa collusa. Cosa aggiungere ancora oggi su quella sua morte così atroce di due decenni fa che cambiò la lettura sulla criminalità organizzata del Meridione? Non molto se non ricordare che molte domande sono rimaste senza risposta e che – come scrive il procuratore generale di Caltanisetta, Roberto Scarpinato nel suo libro “Le ultime parole di Falcone e Borsellino (Chiarelettere) – le reticenze e tanta retorica di Stato continuano ad ammorbare l’aria. E, dunque, ad impedisce di mettere la parola fine sulla lotta alle mafie.
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