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Recensione del libro 'Cristiano della comune specie' di Cherles Peguy |
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26/10/2017 | Nel libro di Cherles Peguy “Cristiano della comune specie” di 184 pagine edito dalle Edizioni Cantagalli ed acquistabile al prezzo di 14 euro viene messo in rilievo che quando lo scrittore ha stampato la sua opera, quando Péguy ha messo il “visto si stampi” al cahier che stiamo per leggere, in qualche modo ha finito la sua parte; ora l’opera è totalmente nelle nostre mani di lettori, dalle quali essa si aspetta la possibilità di mantenersi viva: “È un destino meraviglioso, quasi formidabile, che tante grandi opere, tante opere di grandi uomini e di così grandi uomini possano ricevere ancora un compimento, una conclusione, un coronamento dalla nostra lettura”. Quelle stesse opere possono da noi lettori venire anche rovinate, degradate; così come uno sguardo sciocco può sfregiare la Venere di Milo: “Le parole hanno un senso infinitamente più profondo del loro senso, e soprattutto, piccole miserabili, del loro si-gni-fi-ca-to”.
È la lunga battaglia che Péguy ha combattuto contro le riduzioni psicologiche della personalità umana, sociologiche della convivenza umana, biologiche della vita umana eccetera. Prima ancora di fondare i Cahiers su cui avrebbe condotto questa solitaria battaglia contro il riduzionismo positivista, quando era ancora un giovane ateo entusiasticamente attaccato all’ideale socialista, per scrivere la sua prima Jeanne d’Arc aveva abbandonato l’ipotesi originale di fare un saggio storico coi “documenti”
Per questo Péguy amava le edizioni senza commenti (soprattutto quando si trattava degli amati classici come Pascal, Corneille o Hugo), e sosteneva che ogni testo deve essere preso alla lettera, per quello che è, senza l’intrusione dei cosiddetti esperti: “Il primo dei commenti non vale l’ultimo dei testi”
Il Mistero della carità di Giovanna d’Arco nel quale, dopo un periodo di relativo silenzio, il “gerente” dei Cahiers mostra ai suoi lettori e a tutto il mondo culturale parigino il volto inedito di un cristiano e di un cristiano interessato ad una delle figure allora più discusse della storia religiosa di Francia, la Pulzella d’Orléans, che all’inizio del quindicesimo secolo aveva liberato parte del territorio nazionale dallo straniero inglese e favorito l’incoronazione del legittimo re. Péguy aveva già scritto e pubblicato (a proprie spese) una monumentale opera teatrale avente come protagonista l’eroina della sua città natale. Era il 1897 e al ventiquattrenne d’umili origini appena approdato a Parigi dalla nativa Orléans Giovanna interessava soprattutto come giovane assetata di giustizia, personalmente implicata nella lotta per il suo raggiungimento, determinata a non cedere di fronte a nessun potere avverso. Erano questi i sentimenti che dominavano il giovane studente della Normale che, abbandonata da tempo la fede cristiana ricevuta
da bambino, si buttava in quegli anni nella lotta per la difesa dell’innocente Dreyfus e nella costruzione attraverso il socialismo della “città armoniosa”, descritta nella sua seconda opera; di cui non vendette quasi nessun esemplare, come del resto della Jeanne d’Arc.
Vale la pena a questo proposito fare una ulteriore osservazione sul modo di scrivere di Péguy. Egli, soprattutto nelle opere in prosa, non rispondeva ad uno schema precostituito, né aveva la preoccupazione di rifinire quanto aveva scritto. Piuttosto procedeva per accumulo di materiale che certamente rispondeva ad un preciso filo ispirativo, ma che poteva deviare in rivoli secondari a causa di una lettura, di una conversazione, di una scoperta. La scrittura stessa, in definitiva, rispetta la “sovranità dell’avvenimento”, che è asse centrale del pensiero e della vita di Péguy. Centralità scomoda perché non consente le facili scappatoie del pensiero “sistematico”, quello che si disinteressa della realtà per seguire esclusivamente le proprie proiezioni; centralità, però, estremamente feconda perché è proprio questa obbedienza alla realtà che dà unità organica e non meccanica alla vita.
Biagio Gugliotta
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