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D'amore, di morte e di altre Sciocchezze

 

“...per un vivere sociale migliore.”

          “Sorridi,/

  perchè l’allegria/

  è il segno più evidente/

  della saggezza./

 

  La vita è davanti a te,/

  il cielo è sopra di te./

 

  Il mondo ama le anime chiare,/

      le persone che hanno/

      il sorriso negli occhi/

      e la festa nel cuore.”

                          ( Anonimo)                        

 

“...per un vivere sociale migliore.”

PREGHIERA   SEMPLICE

 Oh! Signore,  fà di me un strumento della tua pace./                 

  Dove è odio fà ch’io porti l’Amor

/ Dove è offesa, ch’io porti il Perdono                 

 Dove è discordia, ch’io porti Unione

Dove è dubbio, ch’io porti la Fede

Dove è errore, ch’io porti la Verità                     

Dove è disperazione, ch’io porti la Speranza

 Dove è tristezza, ch’io porti la Gioia/

                    Dove sono le tenebre, ch’io porti la Luce/.

Oh! Maestro,/

 fà ch’io non cerchi tanto /

ad’essere

consolato, quanto a consolare./

 Ad essere compreso, quanto a comprendere/.

  Ad’essere amato, quanto ad amare./  Poichè:/

Si è:/                                                                 

Dando che si riceve./

Perdonando che si è perdonati./                      

Morendo che si risuscita a Vita Eterna./

 S. Francesco

 Da Mario Vecchione

 

La morte della giustizia

Di Salvatore Borsellino

Mi è arrivata in questo momento una notizia alla quale la mia mente si rifiuta di credere.

Sono ormai abituato nei 17 anni che sono passati dall’assassinio di Paolo a continuare a vederlo ripetutamente massacrato da tutte le volte che è stata negata la giustizia per quella strage.

Da tutte le volte che delle indagini sono state bloccate, dei processi sono stati archiviati nel momento in cui arrivavano ad essere indagati i veri autori di quella strage, i veri assassini di Paolo e dei ragazzi della sua scorta. Quelli che hanno procurato l’esplosivo di tipo miltiare necessario per l’attentato, quelli che dal castello Utveggio hanno premuto il pulsante del telecomando che ha provocato l’esplosione, quelli che in una barca al largo del golfo di Palermo attendevano la comunicazione dell’esito dell’attentato, quelli che si sono precipitati sul luogo dove le macchine continuavano a bruciare, calpestando i pezzi di quei cadaveri e camminando nelle pozzanghere formate dal sangue di quei ragazzi, per potere prelevare l’agenda rossa di Paolo e insieme ad esse le prove della scellerata trattativa tra mafia e Stato per portare avanti la quale Paolo doveva essere eliminato.

Credevo di essere ormai abituato a tutto, di riuscire a resistere a qualsiasi disillusione, a qualsiasi venire meno della speranza di ottenere Giustizia, ma questa volta il colpo è troppo forte, questa volta non so se riuscirò a reggerlo.

Il ricorso presentato in Cassazione dalla Procura di Caltanissetta, retta da Sergio Lari, a fronte della sentenza di assoluzione emanata dal GUP nei confronti del Cap. Arcangioli era inoppugnabile. Quella sentenza grida vendetta sia per quanto riguarda la forma giuridica che la sostanza.

Basta guardare, nelle fotografie e nei video, il Cap. Arcangioli. Si vede un uomo che si allontana dalla macchina con il suo bottino tra le mani per consegnarlo a chi gli ha ordinato di sottrarre quella preziosa testimonianza autografa dello stesso Paolo suoi motivi del suo assassinio.

Basta questo per capire che non possono essere in alcun modo accettate le motivazioni addotte dallo stesso Arcangioli per giustificare le innumerevoli e discordanti versioni date per giustificare le sue presunte amnesie sulle persone alle quali quella borsa era stata consegnata. Per riapparire, due ore dopo la sua scomparsa, sul sedile posteriore della macchina blindata di Paolo ma vuota del suo prezioso contenuto.

Quell’uomo che si allontana guardandosi intorno con espressione sicura e che si guarda intorno per verificare se qualcuno lo sta osservando non è un uomo sconvolto, è un uomo sicuro di se e a cui non importa se è fatto di sangue e di pezzi di carne il terreno su cui cammina.

E’ un uomo che sta compiendo una azione di guerra e deve portarla a termine.
E se così non fosse, se il Cap. Arcangioli fosse innocente e non fosse lui ad avere sottratto quella agenda, gli dovrebbe essere data la possibilità di difendersi in un pubblico dibattimento, di difendersi davanti all’opinone pubblica da un’accusa così infamante con la stessa visibilità che è stata data ai processi dei coniugi di Erba, di Meredith, della Franzoni o alla pretesa agonia mediatica di un povero corpo morto ormai da 17 anni come quello di Eluana.

Ma la Giustizia in Italia è ormai marcia, eliminati senza bisogno di tritolo quei giudici che hanno osato avvicinarsi ai fili scoperti della corruzione del sistema di potere, intimoriti gli altri magistrati con gli esempi di provvedimenti disciplinari inauditi e da espulsioni dalla Magistratura per giudici che cercavano soltanto di ottemperare al giuramento prestato allo Stato al momento di intreprendere il loro servizio a quello Stato in cui avevano creduto, si è ormai arrivati alla fase finale.

Per legge si proclama che il nero è bianco e che la realtà non è quella che vediamo. É quella che DOBBIAMO vedere.

LA GIUSTIZIA E’ MORTA.

 

Cinque sorelle per me posson bastare...

 3 gennaio 2009 

Jawaher 4 anni, Dina 8, Samar 12, Ikram 14, Tahrir 17 anni. Cinque sorelle palestinesi della famiglia Balousha. Vivevano a Jabaliya, vicino a Gaza City. Un campo profughi della striscia di Gaza. Una bomba le ha uccise. Un F16 israeliano è volato sulle case di Jabaliya e sulla moschea Imad Aqel, le ha sfiorate nella notte, il suo respiro le ha distrutte. Israele vuole combattere Hamas, ma uccide i bambini.

Si può dire, gridare che chi uccide i bambini, in modo deliberato, ovunque nel mondo, è un assassino? E che va giudicato per crimini contro l'umanità da un tribunale internazionale? Non ci sono giustificazioni. Lo scrittore Abraham Yehoshua, una voce tra le più importanti di Israele, ha detto: "Non avevamo scelta". Ma tra la vita di una bambina e qualunque altra cosa ci deve essere scelta. La bambina è sacra, il resto non conta.

Israele vuole creare un cordone di sicurezza intorno a sè con i bombardamenti, dal Libano a Gaza. Ma non saranno le bombe a portare la sicurezza. Per ogni civile ucciso, ci saranno cento terroristi in più. Per ogni bambino libanese, palestinese, arabo ucciso, mille terroristi in più. Israele si mette sullo stesso piano dei suoi nemici quando massacra i civili e, per questa ragione, potrebbe non avere domani più amici in Occidente. A Israele si chiede di essere non solo più forte di chi la vuole distruggere, ma anche migliore.
La fotografia delle cinque sorelle uccise ha fatto il giro del mondo arabo e del Medio Oriente.

Una fotografia di rabbia di massa.

 

http://www.beppegrillo.it/

 

I nuovi siti nucleari

Di eptor10, da agoravox.it

 La probabile collocazione delle nuove centrali nucleari. In un’Italia che non sa dove collocare le proprie scorie si ritorna ad una scelta che, con le prime quattro centrali da costruire entro il 2020, contribuirà solo del 10% al fabbisogno energetico nazionale.

A quanto pare questa dovrebbe essere la collocazione degli impianti nucleari italiani, come disposto da decreto legge. Si tratta in tutto di una dozzina di centrali che andranno ad occupare il loro posto nella penisola italiana, cinque al Nord e sette fra il Centro-Sud e il Sud. Ovviamente non vi è nulla di certo in quanto, come pubblicato nella gazzetta ufficiale durante gli ultimi giorni del governo Prodi, il Segreto di Stato è stato esteso anche all’energia e dunque non è dato sapere la collocazione precisa, le caratteristiche tecniche degli impianti e i siti di stoccaggio delle scorie.

Il piano, inoltre, prevede anche il recupero delle vecchie centrali di Trino, Caorso, Latina e Garigliano. Benchè dal 1987 viga un referendum abrogativo che sancisce il processo di denuclearizzazione, le centrali erano state disattivate ben prima di questa data.


 Centrale di Trino: venne arrestata nel 1987 a seguito dell’esito referendario contro l’uso dell’energia nucleare in Italia. Attualmente vi sono stoccati 780 mc di scorie radioattive e 47 elementi di combustibile irraggiato (14,3 tonnellate).

 Centrale di Caorso: doveva essere smantellata entro il 2020, ma a quanto pare il governo vuole ancora riutilizzarla. Gli elementi di combustibile irraggiato posti nelle piscine della centrale sono 1.032, pari a 187 tonnellate. All’interno dell’impianto sono inoltre immagazzinati rifiuti radioattivi che derivano in massima parte dal periodo di esercizio. Sono attualmente stoccati nell’impianto circa 6.800 fusti da 220 litri di rifiuti, per complessivi 1.600 m3 circa. Chiusa dal 1987 in seguito al referendum abrogativo.


 Centrale di Latina:
venne fermata nel 1986 ed è attualmente disattivata. All’interno di essa stoccati circa 900 mc di scorie radioattive. Ma nella provincia a ridosso di Roma si calcola che siano interrati in diversi depositi ben 30mila metri cubi di scorie, ovvero il 60% di tutti i rifiuti radioattivi italiani.


 Centrale del Garigliano: in seguito ad un guasto avvenuto nel 1978, nel 1981 l’Enel decise di non riattivarla. Si contano circa 2.200 mc di scorie radioattive di combustibile irraggiato abbandonati all’interno dei depositi. La centrale fu oggetto anche di
un’inchiesta di Report su Raitre. Risulta infatti che nella zona un morto su due sia per tumore.

Almeno quattro centrali saranno pronte soltanto nel 2020. A fronte di una spesa di cinque miliardi di euro per impianto, più la spesa per la gestione dei depositi di scorie. Conviene oggi, alla luce anche della situazione dei rifiuti radioattivi italiani, ritornare al nucleare? Per l’Enel, controllata dal Ministero dell’Economia, di sicuro sì. E’ previsto che ogni 1000 megawatt di potenza nucleare installata aumenterà il valore della società di 2 miliardi di euro. Ecco il vero motivo di tanto impegno profuso nell’energia atomica.

 

Mario Monicelli: sta tornando il fascismo, sotto altre forme

VENEZIA - L'Italia di oggi? "Una barca alla deriva, dominata dal pensiero unico". Il Sessantotto? "Divertente qui alla Mostra del cinema, ma per il resto fu una sciagura".
La situazione politica attuale? "Sta tornando il fascismo, sotto altre forme". Il cinema di casa nostra? "Garrone e Sorrentino sono bravi, e tra vent'anni li celebrete come adesso fate con me". E' un fiume in piena, Mario Monicelli.
Classe 1915, maestro indiscusso della settima arte, porta una ventata di freschezza al Lido. Con la sua lucidità intatta, la sua verve, le sue battute da toscanaccio. Ma anche con il suo cinema: il cortometraggio Vicino al Colosseo c'è Monti, presentato oggi fuori concorso e da lui diretto, è stato adorato da pubblico e critici. Un omaggio al rione romano in cui il regista vive da tanto tempo, nato da un'idea di sua moglie, Chiara Rapaccini.

Monicelli, è davvero così affezionato a Monti?
"Sì, ci sto da anni. Anzi, la prima volta ci sono stato negli anni Trenta - lei non ci crederà, ma allora avevo già l'età che ha lei adesso. Trovai in affitto una camera ammobiliata: aveva l'ingresso scala, cioè indipendente, in modo da poterci portare anche persone non frequentabili. E poi ancora adesso, entrando nei negozi del rione, tutti mi accolgono in modo civile, senza particolare riguardo, e senza pretendere nulla da me. Mentre giravamo gli abitanti sono stati molto collaborativi, ma senza smancerie".

La Roma di oggi è tanto diversa da quella della sua gioventù?
"E' più grande, più affollata, con più divertimenti. Quando ci arrivai io, negli anni Trenta, dopo le nove e mezzo di sera era già tutto buio".

Allora c'era il fascismo, come descriverebbe la situazione politica attuale?
"Forse il fascismo sta tornando: non esplicitamente, ma con un altro vestito. E sta tornando anche la povertà di allora: ma allora eravamo tutti poveri, oggi la povertà non viene accettata".

Torniamo un momento sulla situazione politica italiana.
"L'Italia è una barca che due generazioni di classe dirigente hanno ormai portato alla deriva. Per salvarla ci vorrebbe un nuovo equipaggio. Dalla generazione precedente abbiamo ereditato la corruzione, che si prolunga fino a ora. Non c'è più musica, non c'è più letteratura, non c'è danza, c'è solo qualche sussulto al cinema. Ma in generale non c'è più nulla".

Pensa che ci vorrebbe un altro Sessantotto, di cui quest'anno ricorre il quarantennale?
"No. Quella è stata una rivolta dei figli contro i padri: i genitori insegnavano loro a rispettare la scuola, a tirare la cinghia, mentre i ragazzi hanno detto 'basta, divertiamoci, consumiamo'. E' stata quella la generazione che ci ha trascinato nel consumismo attuale: la gente, invece di imparare a lavorare, pensa a comprarsi la Ducati".

Eppure lei c'era, alla protesta sessantottina qui alla Mostra di Venezia.
"Sì, c'ero. Facevo parte dell'Anac, l'associazione degli autori che contestava la gestione dell'epoca. Facemmo una manifestazione alternativa, volevamo fare un cinema diverso. Fu divertente: ricordo Zavattini trascinato via, i distinguo di Pasolini... Allora almeno era un'Italia molto combattiva, oggi c'è il pensiero unico".

E il cinema di adesso? Oggi qui a Venezia in concorso c'è il film di Ferzan Ozpetek...
"Lui è una persona stimabile, e poi la Sandrelli ha dichiarato che il suo è un film 'potente': un aggettivo meraviglioso".

Eppure, finora, qui al Lido le opere più applaudite sono state il suo corto e quello di un regista centenario, Manoel De Oliveira.
"Aspettiamo che diventino vecchi anche Garrone e Sorrentino, ho visto i loro ultimi film, belli, o Virzì, Marra, Amoruso: e vedrete che applaudirete anche loro. Bisogna avere pazienza, ci vogliono altri vent'anni. Certo, non tutti i film possono venir bene: io ne ho fatti 65 ma ne vengono ricordati al massimo due, quindi 63 non erano buoni. Il problema è anche la distribuzione, gli esercenti sono dei bottegai. Insomma, siamo in mano ai salumai".

E di De Oliveira, cosa pensa?
"E' la mia ossessione: è più vecchio, più bravo di me, e ha fatto anche più festival. E più sveglio e attivo, perché viene dal circo equestre: non vedo l'ora che scompaia (scherza)! Io invece vengo dalla portineria, e faccio fatica anche a camminare a Monti".

Ha altri progetti dietro la macchina da presa?
"Per adesso non sto lavorando. Ma spero ancora di realizzare un'idea che ho in mente da cinquant'anni, senza riuscire mai a farla. Non ho voglia però di parlarne, sembrerei presuntuoso".

Un consiglio ai giovani cineasti?
"Scegliere storie di una semplicità elementare, che è la cosa più difficile. Non mettere troppe cose e troppi personaggi nel tentativo di renderle interessanti. Sono le storie semplici che nel tempo continuano a emozionare".
(30 agosto 2008)

 

Cosa è il Pil, cosa non è.

Discorso di Robert Kennedy, 18 marzo 1968, Università del Kansas:
"Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL).
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti.
Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.
Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere Americani."

 


La terrona coraggio

 

di Antonio Biasi

La Gazzetta del Mezzogiorno

«Vederti lavorare mi fa schifo... Sei una brutta terrona che mi costa  cinque euro al minuto e non devi permetterti di perdere tempo ad alzare neppure gli occhi quando ti parlo». Con l’accusa di aver pronunciato questa ed altre frasi altrettanto ingiuriose, un’imprenditrice comasca è stata condannata a riassumere e risarcire Lidia, un’operaia vittima per anni di mobbing, anzi di «bossing », come l’ha definito il giudice del lavoro. Le continue offese ricevute dall’operaia l’hanno fatta precipitare in un grave stato depressivo che ha favorito il suo licenziamento. Conferma un’altra operaia: «Non so come Lidia abbia fatto a resistere per dieci anni. Gli insulti della titolare erano all’ordine del minuto, non del giorno: ci diceva che eravamo lì solo per rubarle lo stipendio in attesa della pensione e che si era rotta le balle di mantenerci tutte quante e che eravamo degne di andare a battere sui marciapiedi ». Ora l’affabile imprenditrice, titolare di un laboratorio di taglio e cucito, dovrà reintegrare la dipendente licenziata e risarcirla con 50mila euro. Lieto fine dopo tanti insulti? Niente affatto, perché per colpa del carattere della titolare, le dipendenti, una a una hanno abbandonato il posto di lavoro. Il laboratorio di taglio e cucito è così finito in liquidazione. Concludendo, per la poveretta, niente riassunzione e, probabilmente, niente soldi. Danno più beffa.

 


E un giorno cominciò il Sessantotto..

Sono passati 40 anni da uno degli anni che hanno cambiato il mondo

Il '68 non è solo l'anno delle rivolte studentesche, che, dagli Stati Uniti, dilagano in Europa, in Francia, in Germania, in Italia, altrove; ma è anche quello del terremoto del Belice; dell'offensiva  del tet in Vietnam;degli assassini in America di Martin Luther King e di Bob Kennedy; della Primavera di Praga e dell'invasione della Cecoslovacchia condotta dal Patto di Varsavia; della vittoria dell'Italia di Riva e di Anastasi agli Europei di calcio; dell'enciclica Humanae Vitae di papa Paolo VI; della strage della Piazza delle tre culture e dei pugni chiusi guantati di nero dei velocisti di colore Usa alle Olimpiadi del Messico; dell'elezione di Richard Nixon alla presidenza degli Stati Uniti; dei braccianti uccisi ad Avola. Il '68 è questo e moltissimi altri eventi che hanno comunque segnato la vita di tutti noi, chi c'era già e chi sarebbe arrivato solo dopo, in un mondo profondamente cambiato. Non a caso, come il Quarantotto del XIX Secolo, il Sessantotto è l'unico anno del XX Secolo a essere divenuto un nome proprio.


'68, Cronologia di un anno "difficile" Gennaio

14/15 - Sicilia: terremoto del Belice. Trecento le vittime.
15 - Roma: manifestazione di studenti della Cattolica in piazza  San Pietro.
18/19 - Brema (Germania): gravi scontri tra studenti e polizia. Un morto e molti feriti.
25 - Firenze, Siena, Livorno e Pisa: occupazioni ovunque.
26 - Milano: primo sciopero dei ''medi", occupato il Berchet.
30 - Firenze: polizia carica gli studenti. Dimissioni rettore.
30 - Vietnam: Offensiva del Tet di nordvietnamiti e vietcong.
Febbraio
2 - Roma: occupate Lettere e Architettura.
8 - Francia: prima "barricata" al Quartiere latino di Parigi.
28 - Milano: alla Statale occupate Lettere, Legge e Scienze. Sono decine in tutta Italia, le università occupate.
Marzo
1 - Roma: a Valle Giulia scontri tra studenti romani e polizia.
8 - Polonia: rivolta studentesca.
16 - Roma: gruppi di fascisti assaltano Lettere. Respinti a Legge lanciano mobili sugli studenti. Ferito Oreste Scalzone.
16 - Vietnam: massacro di My Lai
22 - Francia: occupata l'università di Nanterre. Nasce il
"movimento 22 marzo" di Cohn-Bendit. 25 - Milano: "Battaglia di Largo Gemelli" alla Cattolica con scontri violenti tra studenti e polizia.
27 - Urss: l'astronauta Iuri Gagarin muore in un incidente.
30 - Usa: il presidente Johnson annuncia la sospensione dei bombardamenti sul Nord Vietnam.
Aprile
4 - Usa: a Memphis (Tennessee) è ucciso Martin Luther King.
6 - Torino: molti studenti ai picchetti degli operai della Fiat  in sciopero.
19 - Valdagno (Vi): operai abbattono statua del conte Marzotto.
11 - Germania: a Berlino il leader studentesco Rudy Dutschke è ferito a colpi di pistola da un imbianchino neonazista.
29-30 - Usa: bloccate le lezioni in molte università. In sciopero contro il razzismo e la guerra 2 milioni di studenti.
Maggio
3 - Francia: a Parigi comincia il Maggio francese.
6 - Francia: a Parigi gli studenti che tentano di occupare la Sorbona si scontrano con la polizia.
10 - Francia: "Notte delle barricate" al Quartiere latino.
13 - Francia: lo sciopero generale blocca la Francia. A Parigi manifestano in 800.000. Gli studenti rioccupano la Sorbona.
14-16 - Francia: scioperi spontanei nelle fabbriche. A Parigi occupati il teatro Odeon e l' Accademia di Francia.
18 - Usa: a Berkeley in migliaia solidarizzano con gli studenti che hanno rifiutato di partire per il Vietnam.
19 - Francia: lo sciopero coinvolge 2 milioni di francesi. Si blocca quasi tutto. Interrotto anche il Festival di Cannes.
19 - Italia: elezioni politiche: crollo (-5,4%) del Psu (Psi e Psdi insieme), crescono Dc e Pci, 4,5% al Psiup.
24 - Francia: gli studenti si scontrano con la polizia nelle principali città. A Parigi un morto tra i manifestanti.
30 - Francia: De Gaulle scioglie le Camere. A Parigi sfilano 600.000 persone della "maggioranza silenziosa".
30 - Milano: un centinaio di artisti occupa la triennale.
Giugno
3 - Roma: la polizia sgombera l'Università.
5 - Usa: a Los Angeles (California) è ucciso Bob Kennedy.
7 - Milano: gli studenti assediano il Corriere della Sera. Il sit-in si trasforma in un duro scontro con la polizia.
10 - Roma: l'Italia vince il campionato europeo di calcio.
16 - Francia: a Parigi la polizia sgombera la Sorbona.
20 - Venezia: molti artisti ritirano le opere della Biennale per protesta contro le cariche di polizia a San Marco.
23 - Francia: i gollisti stravincono le elezioni anticipate.
Luglio
14 - Roma: Aldo Braibanti condannato per plagio.
29 - Città del Vaticano: enciclica "Humanae vitae".
Agosto
13 - Grecia: Panagulis fallisce un attentato contro Papadopulos.
20 - Cecoslovacchia: ingresso delle le truppe del Patto di Varsavia per stroncare la "primavera di Praga" di Dubcek.
28 - Venezia: Zavattini, Pasolini, Pontecorvo guidano la contestazione dei registi alla mostra del cinema.
Settembre
7 - Portogallo: il dittatore Salazar lascia. Potere a Caetano.
14 - Parma: Duomo occupato da cattolici del dissenso. In nottata sgombero della polizia.
23 - San Giovanni Rotondo (Fg): Muore padre Pio.
Ottobre
3 - Messico: nella capitale, a Piazza delle tre culture, la polizia spara sugli studenti. Moltissimi i morti.
17 - Messico: alle Olimpiadi, clamorosa protesta degli atleti neri Usa Smith e Carlos, sul podio con il pugno chiuso nero.
18 - Roma: si espande il movimento dei "medi".
Novembre
6 - Richard Nixon eletto presidente degli Stati Uniti.
Dicembre
2 - Avola (Sr): la polizia spara sui braccianti. 2 morti.
4 - Firenze: la Curia rimuove Don Mazzi, parroco dell'Isolotto.
7 - Milano: gli studenti contestano la prima della Scala.
19 - Roma: l'adulterio della donna non è più reato.
24 - Usa: l'Apollo 8 intorno alla Luna.
31 - Marina di Pietrasanta (Lu): contestato il Capodanno alla Bussola, famoso locale della Versilia. Soriano Ceccanti, ferito da un colpo di pistola, resta paralizzato.

da www.ansa.it

 

 

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Auguri........da Federico Valicenti

Mentre l’economia globale tende a stritolare le diversità omogeneizzandole, rendendo tutto uguale e asettico, inodore, insapore, la Basilicata del cibo e delle tradizioni si  ritaglia  uno spazio

nell’ economia  della memoria e della cultura.

Auguri!

Auguri ad una Basilicata fatta di uomini e donne, consapevoli che il cibo crea legami e desideri nella vita dei propri paesi e che non si può far finta che non sia vero, ormai è un corpus culturale immenso che non vuole più essere sottovalutato, ma  va stimolato e preservato.

Il cibo lucano è fatto di storia, tradizione,artigianato, cultura del territorio, degli oggetti!

Solo chi non ha memoria di se stesso, della sua cultura  non se ne cura , si lascia morire, deperire e getta via come se fosse un fardello mentre chi,  invece,  si affida il  compito di  salvare e mantenere viva la cultura della diversità deve avere la possibilità di  realizzare il presidio della memoria, nel proprio luogo, nella propria comunità.

Come?

Scrivendo la storia e le storie del cibo e delle persone  che hanno contribuito a caratterizzare un prodotto, una tradizione, valorizzando anche ambiti differenti come la musica, le tradizioni orali, la piccola editoria, le architetture,diventano economia locale,

La musica, i miti e i riti, le manualità, i modi di costruire,  di sopravvivere e di raccontarsi, le coltivazioni e le trasformazioni, la distribuzione e il consumo del cibo si intersecano creando tra loro una rete.

Creare la  rete per contribuire  ad arricchire i territori, preservarli da scempi architettonici, culturali, ecologici.

Fare sistema per incanalare  processi produttivi per sprigionare energia dando impulso all’economia, valorizzando  in tutto e per tutto le risorse umane del territorio.

Solo agendo in questo modo, solo sprigionando forza all’interno di un economia locale, che fa sistema, ci si può sentire attori-produttori, realizzatori e conoscitori di prodotti, sostenitori di diversità.

Una rete-sistema dove sostenibilità non significa solo guardare  il mondo rurale ma incontrare anche le piccole città con le sue capacità i suoi valori, la sua generosità.

Dove i vari soggetti che la compongono sono in contatto tra di loro, costantemente, comunicano e sono disposti ad aiutarsi con  la convinzione che la forza delle idee cambia il mondo.

Claudio Lolli  alla fine degli anni settanta  in una splendida canzone, invitava l’uomo a riappropriarsi di quello che stava perdendo: il contatto con la natura, le visioni, il cibo.Riprendiamoci la terra, la luna e l’abbondanza.

Ed è un augurio al mondo intero.Riprendiamoci la terra. La Madre Terra che ci alleva  e accoglie, che nutre e ci fa crescere.

Vogliamo la terra con un futuro lungo e radioso, rispettata, che si mette al servizio della cultura fatta da uomini e donne con l’orgoglio dell’appartenenza e del rispetto del cibo che produce.

Vogliamo l’abbondanza, con pari  dignità per tutti, soprattutto per chi  produce e  lavora la terra, che possa vivere degnamente e contribuire a costruire un nuovo sistema del cibo.

Vogliamo la luna, per poter pensare in grande senza limiti, non ci fa paura l’utopia, non ci spaventano i  cambiamenti virtuosi che possa fare la storia, non ci spaventa lavorare affinché questo avvenga.

Affinché il  piacere diventi un diritto universale, perché il piacere sia anche di stare bene su un pianeta in salute. Negli ultimi anni sono stati fatti passi da gigante per far prendere coscienza del mangiare sano e pulito, di ricominciare a mangiare con il gusto, uscire dalla cultura del mangiare glutammato e “gonfiato”.Divulgare il concetto di qualità  che si va  sempre di più allargando a cui si devono  aggiungere gli  aggettivi di pulito e giusto che risultano essere  due aspetti fondamentali e importanti per la cultura del cibo.Si tratta di un processo educativo che bisogna portare nelle scuole e nelle case. Il nostro impegno all’educazione si deve tradurre soprattutto in progetti per realizzare la diffusione del cibo lucano, per salvaguardare e mantenere in vita le tradizioni popolari, le bio diversità.

Nel 1607 Francesco Angelita scriveva che la lumaca ha due grandi  virtù : la  lentezza e l’aderenza Lentezza come prudenza, come buon senso.Aderenza  come capacità di adattarsi  al territorio,di perlustrarlo e di viverlo sino in fondo.Continuiamo questo splendido  viaggio in terra di Basilicata,  con  il coraggio e la consapevolezza di cercare un mondo migliore, con costante evoluzione rispetto a dove ci troviamo, cosa e con chi mangiamo.

 

AUGURI DI UN BUON 2008

 

Federico Valicenti

 

 


ONORIFICENZE DATE DAL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA  GIORGIO NAPOLITANO

 

Il Maresciallo Nicola Di Giacomo è nato a Francavilla in sinni il 6 Novembre 1955, sposato con quattro figli. Il 15 Settembre 1973 si è arruolato nell’aeronautica militare, frequentando la scuola specialisti dell’A.M.di Caserta. Il 31 Maggio 1974 al termine del corso, è stato destinato al 16° Reparto Genio Campale di Bari-Palese, dove svolge l’attività di elettricista impianti infrastrutture e voli notte, girando quasi tutti gli aeroporti militari e civili d’Italia e all’estero (Albania), con il compito della manutenzione e installazione di impianti voli notte e centrali elettriche aeroportuali. E’ stato insignito della medaglia d’oro, per anzianità di servizio. Dal 1° Gennaio 2008, andrà in congedo.

Rocco Fasulo nasce a Potenza il 20 gennaio 1945, discendente di un’antica famiglia del capoluogo le cui origini certe risalgono al 1750 (con Brigida Fasulo che ebbe un ruolo fondamentale nel far fallire la congiura del Giacomino contro le autorità di Potenza nel 1799 “Cronaca potentina di Raffaele Riviello”). Figlio e nipote rispettivamente di Giuseppe e Alfredo, entrambi apprezzati costruttori edili del capoluogo lucano con i quali ha collaborato per quanto riguarda l’amministrazione delle imprese.  Sposato con Maddalena Barrotta (discendente della nobile famiglia pugliese De Candia Spagnoletti) papà di Marco e Stefano e nonno di Luigi, Andrea e di Jacopo (in arrivo). Prima sottufficiale dell’esercito per alcuni anni in Friuli Venezia Giulia, poi docente di educazione fisica in diversi istituti lucani, quindi dipendente della Banca di Roma per oltre trent’anni, ruolo nel quale ha conseguito diverse promozioni e gratifiche, nelle sedi di Messina, Bari e Potenza. Pensionato nel 2003,  ponendo al primo posto sempre la famiglia, ha potuto però dedicare più tempo ai suoi hobby, il pianoforte, l’ascolto di musica classica, la pittura, la lettura e, soprattutto, la  scrittura, autore del libro ‘Via Pretoria 234’. Nel 2006 nominato Maestro del lavoro e nel 2007, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri, “Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana”.

 

 

 

 

riceviamo e pubblichiamo

 


Lettera di Vice Presidente Vicario Consiglio Provinciale Romano Cupparo al Presidente della Giunta Regionale Vito De Filippo 20-12-2007

Signor Presidente,

ho deciso di scriverle questa lettera dopo aver constatato che il problema dello spopolamento delle aree interne, nelle quali io vivo, ha assunto connotazioni apocalittiche. Mi rivolgo alle Istituzioni locali, provinciali e regionali affinché la politica si occupi finalmente di questo dramma che esige interventi urgenti e perentori che non possono essere più procrastinati nel tempo. I dati sullo spopolamento delle zone interne, hanno fatto emergere un quadro a dir poco allarmante sul futuro di queste aree, che esige un'attenta riflessione da parte non solo dell'opinione pubblica, che vive direttamente il problema, ma ancor di più da parte della classe politica locale, provinciale e regionale che mai come in questo particolare momento storico è investita di una responsabilità immediata e decisiva. Certamente è giunto il momento di affrontare con coraggio e determinazione un problema che mette in serio pericolo il futuro delle persone che con sacrificio hanno scelto di vivere con le loro famiglie in questi territori. Se nell'immediato non si prende coscienza della drammaticità della situazione e non ci si attiva con politiche innovative, capaci di dare risposte a breve termine, il futuro per noi e per i nostri figli in questo territorio appare seriamente ipotecato. Eppure, Signor Presidente, le nostre terre hanno molto da offrire sia per quanto attiene la qualità della vita che per le potenzialità di crescita e sviluppo socio-economico. Le chiedo, Signor Presidente, cosa accadrà quando questi territori rimarranno spopolati? I costi del dissesto territoriale da chi saranno sostenutiIl punto di partenza è la presa di coscienza della drammaticità della situazione che esige la mobilitazione di tutte le forze del territorio, attraverso l' organizzazione di momenti di dibattito, di confronto e di proposta. Le forze politiche, tutte, debbono sentirsi investite di grande responsabilità oltre gli schieramenti di partito.

Le chiedo, Signor Presidente, di raccogliere il mio invito e di impegnarsi in questa causa nobile e decisiva per il futuro di migliaia di persone, facendosi interprete delle nostre istanze. Insieme, attraverso la pianificazione di momenti propositivi e di confronto e il coinvolgimento di tutte le forze propulsive del territorio (Comuni, Comunità Montana, Associazioni, Chiesa locale, forze sociali), potremo trovare risposte concrete di sviluppo. La convocazione di Consigli Comunali monotematici, aperti al contributo di tutte le forze del territorio potrebbero rappresentare un primo momento di confronto. Le chiedo, Signor Presidente, di prendere a cuore questa "battaglia per non morire", con atti concreti di programmazione territoriale che porti risorse a queste terre.Certo che Ella, Signor Presidente, sensibile al problema drammatico che ho rappresentato, saprà rendersi interprete di iniziative utili a mobilitare le forze politiche regionali, provinciali e locali, cordialmente La saluto e Le auguro un proficuo lavoro. 

                                                Romano Cupparo

                                                Vice Presidente Vicario

                                                Consiglio Provinciale di Potenza

 


MONONGAH: LA STRAGE NELLA QUALE MORIRONO ANCHE 6 LUCANI, ORIGINARI DI NOEPOLI

da www.repubblica.it

MONONGAH (West Virginia) - Erano le dieci e trenta del mattino del 6 dicembre 1907, quando la miniera di carbone e ardesia di Monongah saltò in aria. In quel momento c'erano dentro quasi mille persone, moltissimi italiani. Sopravvissero in cinque. Fu il più grande disastro minerario d'America. E d'Italia, visto che i nostri emigranti pagarono un prezzo superiore addirittura a Marcinelle. Cento anni dopo, siamo tornati in West Virginia per ritrovare la memoria di una tragedia rimasta senza un perché.

La Storia è passata di qui cento anni fa e ha lasciato il suo segno su un ripido pendio erboso. Il cimitero non ha un recinto, le lapidi sono messe nella terra senza un ordine, sono sparse come fossero state gettate a caso. Nella pancia della collina sono sepolti molti più uomini di quanti non si possa immaginare contando le pietre tombali: in un solo giorno le fu chiesto di accoglierne cinquecento, forse mille. Era il 6 dicembre del 1907. A Monongah, piccolo paesino tra i boschi dei monti Appalachi, abitavano 3.000 persone, vivevano per la miniera della Fairmont Coal Company.

Estraevano carbone e ardesia. Ci lavoravano grandi e piccoli. Ogni uomo regolarmente assunto e con il bottone di ottone, che riportava la sua matricola, appuntato sul petto portava con se almeno due aiutanti, erano adolescenti o bambini, la loro discesa sotto terra non era registrata da nessuna parte. Pochissimi furono riconosciuti. Arrampicandoci sul crinale ne troviamo uno: "Qui è che giace Giuseppe Colarusso, in Santa Pace volò in grembo di Dio, nella tenera età di anni 10. Suo fratello Michele pose".

 

Gli adulti guadagnavano 10 centesimi l'ora, i ragazzini ricevevano una mancia legata alla quantità di carbone che portavano in superficie. Vivevano in baracche di legnoricoperte di carta catramata, in dieci per stanza, pagando anche dieci dollari al mese, metà dello stipendio.

Quel venerdì mattina alle 10 e 30 una scintilla incendiò il grisou, il gas che riempiva le gallerie, non si è mai saputo perché e le inchieste non hanno trovato responsabili. L'esplosione fu terribile e si propagò per centinaia di metri dalla galleria otto alla sei. Sopravvissero in cinque, per gli altri non ci fu scampo. Il boato si sentì a trenta chilometri di distanza. Ci vollero molti giorni per recuperare i corpi, che erano carbonizzati e sfigurati, in gran parte irriconoscibili.

Venne allestita una camera mortuaria nella sede della banca, un luogo di cui nessuno si fidava tanto che i morti avevano i risparmi arrotolati nella cintura. Quando fu piena si cominciò ad allineare i cadaveri sul corso principale. Una folla di madri, vedove e orfani vagava alla ricerca di qualche segno di riconoscimento.

Le scarpe, una giacca, i segni della barba. Alla fine soltanto 362 ebbero un nome e il diritto alla lapide. Gli altri ebbero sepoltura comune, o rimasero sotto il carbone.

Su sei vagoni ferroviari arrivarono 500 casse di legno. Il sindacato dei minatori disse che tanti erano state le vittime, i giornali arrivarono a parlare di mille morti. Di certo ci furono 250 vedove e un migliaio di orfani. La moglie di Carmine Ferrario era incinta di due mesi quando la minierà crollò, sulla lapide fece scrivere: "A Carmine nato a Vacri Chieti, vittima del disastro di Monongah, la moglie desolata pose". Otto mesi dopo fece aggiungere: "Il figlio Carmine di mesi uno seguì il padre nella tomba il 9 agosto 1908". La pietra si era spezzata esattamente a metà, oggi l'hanno aggiustata e padre e figlio sono tornati insieme.

Fu il più grande disastro minerario della storia americana. E di quella italiana. 171 dei morti riconosciuti erano emigrati dal nostro Paese. Più che a Marcinelle, in Belgio dove nel disastro del 1956 morirono 136 italiani. Ben 87 venivano dal Molise, poi dalla Calabria, dall'Abruzzo e dalla Campania. Ce lo raccontano le lapidi. Scritte in italiano, piene di errori, piene di disperazione: "A riposo di Cosimo Meo del fu Donato e di Filomena Paolucci, morto di 20 anno nel disastro di Monongah nella miniera N 8, nato ha Frosolone di Campobasso lascia sua madre".

Gente povera, semianalfabeta, sfruttata. Solo l'anno precedente erano arrivavati ad Ellis Island, la porta d'ingresso per l'America, più di 300mila emigranti dall'Italia. Dalla baia di New York li portavano qui per soddisfare il bisogno di carbone e legname del boom industriale americano. La compagnia anticipava i 15 dollari del viaggio, che poi avrebbe trattenuto dalle paghe settimanali.

Erano giovanissimi e vivevano quasi da reclusi come racconta il direttore dei Quaderni sulle Migrazioni, Norberto Lombardi, nel libro "Monongah 1907, una tragedia dimenticata", che il Ministero degli Esteri ha pubblicato questa settimana. I campi di lavoro erano controllati da guardie armate, non si poteva evadere, se non prima di aver pagato tutti i debiti. Anche il cibo si comprava allo spaccio della compagnia mineraria che tratteneva la spesa dallo stipendio. Così erano sempre sotto scorta, tanto che circolava una battuta: "Gli emigranti italiani fanno parte tutti della famiglia Reale".

Di loro per molto tempo si era persa la memoria. Le lapidi erano ridotte in uno stato pietoso, spezzate, semicoperte dalla terra che con la pioggia smotta ogni inverno verso la strada, ma questa estate sono state recuperate e ripulite: dopo anni di incuria e dimenticanza il governo italiano ha spedito 100mila dollari per i lavori.

La storia è passata di qui e poi se ne è andata con la fine della miniera. Oggi tra queste colline boscose abitano meno persone dei morti di quella mattina di cento anni fa. Non sono diventati ricchi, ce lo raccontano le casette bianche ad un piano in finto legno, le automobili datate, la merce nei negozi. La storia ha lasciato non solo la West Virginia ma tutta questa parte d'America, le acciaierie di Pittsburgh hanno spento gli altiforni, il periodo d'oro cominciato con Andrew Carnegie, l'uomo che pagò per le sepolture, è finito da un pezzo e il declino non ha risparmiato nessuno. La miniera ha segnato la storia anche perché da quel momento cominciò la discussione per mettere nuove regole, la richiesta di sicurezza. Ma la strage dei minatori continuò, l'anno dopo, mese dopo mese, in decine di incidenti morirono in 700. In un secolo rimasero sotto terra 20mila persone solo in questo Stato, e gli ultimi 14, poco lontano da qui, li hanno persi lo scorso anno.

Ma la memoria è rimasta. "Come sarebbe possibile dimenticare, ogni famiglia ha un antenato che era nella miniera quel giorno. Il bisnonno di mio marito si salvò perché doveva scendere il turno dopo": Diane Masters, caschetto biondo, è la proprietaria del piccolo ristorante Diary Kone. Più una gelateria fast food che un ristorante, ma i suoi sei tavoli sono un'istituzione in paese. Ci sono dal 1960, lei lo ha preso tre anni fa: "Gli affari vanno bene, anche perché ho convinto il vecchio proprietario a vendermi con il locale anche la ricetta segreta per la salsa degli hotdog". È una specie di ragù leggermente piccante. "Ma il vero campione della memoria è stato il reverendo". Everett Francis Briggs è morto lo scorso anno, era nato due anni dopo la tragedia, era cresciuto ascoltando la storia dell'esplosione che uccise italiani, polacchi, irlandesi, russi e slovacchi e si è battuto perché non si dimenticasse.

Nel cinquantesimo anniversario ha aperto una casa di riposo per anziani intitolata a Santa Barbara, la protettrice dei minatori. Oggi ci vivono 57 vecchi non autosufficenti della zona. La dirige suor Mary, che non ha molto tempo da perdere, sotto il braccio ha un fascio di cartelle cliniche, ma con la mano libera con tre gesti secchi ci indica la statua della santa patrona ("Sotto sono incisi i nomi di tutti i caduti"), il ritratto di un ragazzino minatore ("È originale e mostra che sotto terra andavano anche i bambini") e la targa che ricorda il reverendo. Poi apre la porta del suo ufficio e ci congeda: "Buona fortuna". Nella sua struttura ci sono persone che hanno combattuto nella Seconda Guerra Mondiale e per loro ha messo l'adesivo sul vetro all'ingresso: "Se ami la libertà ringrazia un veterano". Anche il cimitero è costellato di bandierine a stelle e strisce, perché tra le tombe dei minatori ci sono anche quelle dei reduci delle Guerre Mondiali, della Corea e del Vietnam.

Aveva 98 anni quando se n'è andato, non potrà vedere la campana regalata dal Molise, nata nella fornace della Fonderia Pontificia Marinelli di Agnone, suonare domani mattina. I ragazzi della scuola media, che ha come mascotte un leoncino, sono pronti. A turno, ad ogni rintocco della campana, leggeranno i nomi dei morti. Sul muro della scuola hanno attaccato uno striscione dipinto a mano su un lenzuolo bianco: "Noi ricordiamo".

Oltre il fiume West Fork, sui cui lati stavano le due gallerie della miniera, c'è la città vecchia, da allora non si è mai ripresa. Il ponte è dedicato a padre Briggs, sopra ci sono gli striscioni della regione Molise, scritti in due lingue. Accanto all'ufficio del sindaco e dello sceriffo, di fronte Blumberg building del 1911, dove oggi c'è il "Dark Side Karaoke", c'è la statua dell'"Eroina di Monongah", una donna con il fazzoletto in testa, un figlio in braccio e l'altro per mano: "In memoria delle mogli vedove e della madri delle vittime della miniera".

Una di queste si chiamava Caterina Davia, perse il marito e due figli, ma i loro corpi non vennero mai trovati. Ogni giorno, per quasi trent'anni, tornò all'ingresso delle gallerie per portare via un sacco di carbone che poi svuotava nel suo giardino. Diede vita ad una collina, "la collina di carbone", che arrivò a sommergerle la casa. Diceva che lo faceva per togliere loro un po' di peso. E per dare un senso alla sua follia.

 


Riceviamo e pubblichiamo

Caso Murate - Ripristino della fermata dell'autobus: promesse da marinaio

Nel mese di settembre ho partecipato, insieme alla gente di Murate, all’incontro con il Sindaco della città per ascoltare le ragioni dell’ Amministrazione, ma anche per rivendicare diritti sacrosanti, che con la deviazione di migliaia di auto all’interno del quartiere, erano stati negati. In particolare il sottoscritto portò all’attenzione dei presenti il problema della soppressione della fermata dell’autobus che consentiva agli abitanti di Murate e, soprattutto alle persone anziane o con handicap fisico, di non restare isolati nel quartiere. Appariva ovvio a tutti, ma certamente non ai responsabili di questo servizio, che il collegamento con il Serpentone, unico servizio rimasto, non poteva e non può minimamente rispondere alle esigenze del rione, sia per la vicinanza di questa località, sia perché la sua posizione periferica allontana più che avvicinare gli uffici e gli altri servizi pubblici e privati dislocati nell’ambito cittadino. In tale occasione, il Sindaco, l’Assessore alla Mobilità e il Dirigente dell’Ufficio Traffico, in verità interessati per lo più a trovare giustificazioni al boccone avvelenato rifilato alla comunità, apparvero sorpresi di questo disservizio, ma nello stesso tempo molto disponibili a trovare un immediato rimedio. Il modo in cui lo stesso Sindaco rassicurò il sottoscritto e gli altri sulla pronta soluzione della questione sollevata, aveva ricevuto indubbi apprezzamenti tra i presenti, che in qualche modo erano apparsi sollevati per la disponibilità all’ascolto del Primo cittadino e per la sua volontà di trovare rimedio ai disagi della popolazione. A distanza di due mesi, quell’impegno sembra essere, al pari di altri presi pubblicamente nel quartiere, un’altra promessa da marinaio, cioè fatta da chi non si identifica e quindi si ritiene estraneo ad una comunità di persone. La piazza, presentata in pompa magna con tutti i dettagli e addirittura con il plastico di una magnifica fontana, pubblicizzata dai media che riportavano anche le valutazioni degli abitanti, appaltata e addirittura recintata, si è dissolta improvvisamente come neve al sole. Stessa fine hanno fatto le promesse di un terreno per l’edificazione della Chiesa parrocchiale che la comunità attende da quasi trenta anni. Ma se in questi casi si è trattato solo di sogni non realizzati, per quanto attiene la cancellazione della corsa dell’autobus ci troviamo di fronte alla soppressione di un servizio pubblico vitale per la gente di Murate, che deve tra l’altro, subire la beffa di mezzi pubblici diretti in ogni direzione, che attraversano le strade del quartiere senza effettuare fermata. Che fine ha fatto quella promessa formulata a settembre nella Sala dell’Arco presso la Sede Municipale? Non voglio pensare, conoscendo la dedizione e l’attenzione che i nostri amministratori nutrono  per i loro concittadini, che si tratti di una banale dimenticanza. Forse sono in attesa di una ristrutturazione di tutto il trasporto urbano che ormai aspettiamo da una vita? In verità credo proprio che questa mia sacrosanta richiesta, come tante altre formulate dagli abitanti del quartiere, finirà per non ricevere alcuna risposta concreta. Certo di interpretare i sentimenti di quanti, come me, vivono con profondo disagio questa situazione, intendo comunque esprimere il profondo rammarico e il senso di ribellione che anima l’intera comunità nei confronti di un atteggiamento che non dovrebbe trovare spazio in un paese che si considera civile e democratico. Noi abitanti del quartiere di Murate siamo stati considerati ancora una volta cittadini di seconda serie o addirittura sudditi senza diritti e senza prospettive. Sono anziano e ne ho viste di tutti i colori, ma nonostante tutto credo ancora nel principio di uguaglianza di tutti i cittadini e soprattutto nella democrazia, cioè in un sistema politico in cui, la capacità di prendere le decisioni essenziali per la vita comune è consegnato nelle mani del popolo. Non mi rassegno a rimanere servo felice di un sistema in cui i cittadini, relegati in casa o tra le pareti artificiali di migliaia di veicoli in transito, dovono badare ai propri affari, guardare la TV, consumare,  lavorare, pagare le tasse, dormire e non disturbare chi comanda, accampando diritti non più riconosciuti alla plebe. Siamo persone oneste e leali, ma non sudditi.

Raffaele Cirigliano  
Cittadino e non suddito            
PRIGIONIERO NEL TRAFFICO
 


Nota sull'editoriale "Quello che non siamo" di Mariapaola Vergallito

di Sandro Berardone, consigliere provinciale

Di solito sfuggo, per formazione politica, alla tentazione di comunicare in pubblico ad ogni costo in quanto ritengo più utile ripiegare verso la ricerca di soluzioni ai problemi reali e concreti che perdersi nella disputa politica a mezzo stampa. Ma l’editoriale di Mariapaola Vergallito non merita di passare inosservato.

Sono d’accordo con lei. Per troppo tempo questo territorio, per nostra responsabilità, non ha aiutato l’apertura di una linea di fiducia vero le nuove generazioni. Questo territorio ha bisogno di tante cose ma nello stesso tempo ha necessità di nutrirsi di uno spirito critico, anche violento ma non strumentale, nei termini posti dall’editoriale. L’articolo deve farci riflettere nella misura in cui un gruppo di giovani professionisti organizzano un convegno innovativo (secondo me fatto bene per qualità e modalità) sono costretti ad interrogarsi sui limiti organizzativi e non sul mancato rispetto da parte di tutti noi verso una iniziativa lodevole.

Non possiamo permetterci il lusso di deludere tutti quei giovani che con passione e competenza tentano di indicarci percorsi e modelli innovativi verso una nuova stagione del protagonismo del territorio. Penso infine che l’editoriale sia stato utile per far riflettere tutti noi, rappresentanti delle istituzioni locali, nell’assunzione di responsabilità verso i temi trattati affinché un eccellente convegno possa produrre effetti positivi per tutta l’area.

 


Il botto e la realtà dei borghi rurali

di Pasquale Doria, la Gazzetta del Mezzogiorno

Una tristezza sconfinata. Si coglieva senza sforzarsi neppure più di tanto in quegli occhi gonfi di pianto e nei lunghi silenzi colti tra i residenti del Borgo Picciano B. Sono stati travolti da una tragedia che è costata la vita ad un bambino di otto anni. Era uno di loro e le lacrime erano sincere, la disperazione autentica per quel lutto, l’ansia fortissima per le condizioni di salute degli altri quattro componenti la famiglia di loro amici così duramente colpiti, il padre, la madre, due sorelle. Ma c’era anche dell’altro. Un disagio che veniva da lontano. Volendo, si poteva scorgere anche questo nei loro sguardi. C’è voluta la disgrazia per accorgerci che esistono. È vero, l’alta collina su cui sorge il Santuario di Picciano quasi nasconde quel pugno di cassette rurali edificate all’inizio degli anni Sessanta. Ma gli altri, quelli del borgo indicato con la lettera A, che si trovano a valle, in posizione più favorevole, pure loro, ma chi li vede? Vivono in campagna ed è quasi naturale un certo isolamento. Ma non sono contadini, assegnatari delle case coloniche con l’appezzamento di terra, una quotizzazione che avrebbe dovuto affrancarli dalla schiavitù di un lavoro bracciantile durissimo. No, i coltivatori diretti lì sono mosche bianche. La maggior parte ha scelto i borghi per ripiego, non ha progettato liberamente di vivere in quelle lande desolate prive di qualunque servizio. Non ci sono ragioni bucoliche alla base della residenza in case spesso occupate solo perchè vuote, ridotte a ruderi che nessuno voleva e rimesse a nuovo alla meglio a spese proprie. La riforma agraria che avrebbe dovuto trasformare i braccianti in piccoli proprietari in quei borghi ha invece scritto alcune tra le pagine più nere del suo fallimento. Perchè chi doveva lavorare quelle terre, angariato per secoli, era già andato via, lontano, all’e s t e ro, magari legato ad un’altra catena, quella di montaggio della torinese Fiat. Così, gli abitanti di oggi forse piangevano anche per altro, perchè la pentola l’ha scoperchiata una fuga di gas col botto e chi ha voluto ha capito come realmente vive un popolo d’i nv i s i b i l i , dove disoccupazione e precariato celebrano il loro trionfo. Con una differenza rispetto al passato: se come ieri decidessero d’emig rare, questa volta, dove potrebbero trovare il lavoro che non hanno?

 


LETTERA APERTA AL MINISTRO PECORARO

 

Ill.mo Ministro,

ho ascoltato con attenzione la sintesi della sua relazione alla conferenza nazionale del clima e Le debbo dire che sono perfettamente d’accordo con Lei. Tale mia concordanza deriva da fatti riscontrati durante quest’estate.

In una mia, ormai rara, andata al mare, con obbligo di pesca di cui sono un appassionato, dopo alcune ore sono riuscito a pescare un pesce che con mia grande sorpresa era già lesso. Ho messo la punta dei piedi in acqua ed ho dovuto ritirarla subito per non scottarmi. Ho pensato che era l’effetto dell’Enea situata vicino Policoro e le debbo dire la verità mi è sorto il rammarico di aver partecipato insieme a Lei alla grande manifestazione di Scanzano perché ho pensato che forse era meglio avere le scorie controllate e monitorate e non come sono oggi all’addiaccio sulla costa Ionica e oltre. È stato un momento di debolezza e me ne scuso. Quando ho poi sentito Lei per televisione, ho dato una spiegazione al fenomeno; e se Le debbo dire la verità, ho avuto la sensazione che non di quattro volte ma di qualcosa in più deve essere salita la temperatura dell’acqua. Ma è stata una mia sensazione; senza dubbio ha ragione Lei che è un luminare dell’ambiente e sicuramente ha dati più precisi. Mentre mi ritiravo dal mare sulla Sinnica (strada del centro Sud della Lucania che costeggia per buona parte il Pollino) a destra e a manca sembrava un inferno. Boschi che la mattina erano il de rerum naturae, stavano scomparendo in preda alle fiamme. Ho pensato subito alla vendetta della natura stessa. Egregio Signor Ministro Pecoraro, io sono un panteista e penso che la natura non bisogna lasciarla sola. Bisogna non solo amarla, ma curarla, starle vicino, parlarle. È mai stato in un bosco, ha mai sentito le parole del suo silenzio? Ecco Lei deve ridare all’uomo quello che è stato sempre dell’uomo. Solo così la natura troverà armonia e pace. Dico a Lei, che è un animalista convinto: Le sembra bello chiudere vacche, pecore, buoi in stalle che non danno loro quella serenità per produrre quei magnifici prodotti che costituivano gli antichi sapori e di cui se ne è perso il gusto? Pensa quanti forestali naturali avrebbe a disposizione se lasciasse liberi di entrare nei boschi, vacche, buoi e capre. E vuole mettere il lavoro di pulizia che svolgono le pecore di cui Lei nel senso etimologico dovrebbe conoscerne le capacità? Ecco, Lei, che è così potente da parlare al mondo intero dei problemi dell’ambiente, diventi anche un bucolico convinto ed apra i boschi a chi li ha sempre avuti e curati nei secoli e vedrà che la natura Le sarà grata e rifiuterà pure d’incendiarsi.

Del resto i nostri boschi soffocati da sterpaglie ed arbusti non riescono a respirare e quindi a svolgere neppure quella funzione clorofilliana di cui la terra ha tanto bisogno. E chissà che non tornerà a piovere come una volta quando i nostri contadini si affidavano alla natura e non a qualche Ente irriguo che per la sua inefficienza fa seccare, sulla pianta, anche i famosi peperoni di Senise. Perché Caro Ministro, qui succede anche questo paradosso: con il più grande serbatoio d’acqua d’Europa a poche decine di metri i nostri contadini non hanno la disponibilità di acqua nelle campagne mentre a decine di chilometri se non a centinaia la nostra acqua irriga i campi regionali ed extraregionali.

Ma questa è un’altra storia e come direbbe De André: è una storia sbagliata. Ma, del suo concione, ciò che più mi ha colpito è stato quando ha detto: qui, bisogna cambiare vita. Finalmente ho detto qualcuno l’ha capito.

Qui nel centro Sud della Lucania lottiamo da anni per farlo ma viviamo emarginati ed esclusi da ogni veicolo di sviluppo che porti lavoro per i disoccupati giovani e vecchi; eppure nel Senisese abbiamo una grande risorsa, l’oro bianco le cui miniere vengono sfruttate, per non dire rapinate, dalla nostra Regione e non dagli amministratori della Zona che invece di suonare le trombe, suonano le campane. Le debbo dire che sono uscito dall’equivoco quando Lei ha chiarito che cambiare vita era inerente all’ambiente. Ora Le debbo dire che ciò ci è più facile in quanto lo spopolamento continuo dei nostri paesi, già in atto, ci sta portando naturalmente a quello che Lei vuole e fra pochi anni le nostre popolazioni saranno oggetto di visite turistiche come nelle riserve indiane e anche meta di antropologi.

Nel frattempo, visto che (sicuramente in contrasto con Lei e di questo ne chiediamo venia) negli anni scorsi abbiamo richiesto (senza alcun esito), per dare lavoro alle nostre popolazioni, nell’ordine: una centrale nucleare, un termovalorizzatore, un rigassificatore, immondezzai vari per aiutare ‘ O Presidente ‘ campano; insomma tutto ciò che gli altri rifiutavano, ora in linea con Lei potremmo mettere a disposizione invece un’energia alternativa che a Lei piace tanto. Si tratta di energia eolica allo stato naturale che, ad impatto ambientale zero e anche in assenza di vento, i suoi esperti potranno utilizzare, previo indennizzo, come e dove vogliono. Nella nostra zona siamo circa trentamila persone che invece di andare a divertirsi come fa Lei al V-Day, partecipano quotidianamente al rito funebre dell’ M-Day della nostra terra e che quindi ne hanno le scatole piene di essere presi in giro dalle istituzioni; per cui naturalmente si è creato un vorticoso movimento di pa..le a ciclo continuo da cui si può ricavare energia “pulita” e sopperire in modo alternativo come a Lei piace ai fabbisogni energetici. Anche per affinità cromatiche, Lei per scelta politica e noi per disfunzioni cistiche, contiamo su un suo riscontro e la riveriamo cordialmente.                  

    

Senise, li 15.09.2007   

                                                                                  Francesco PONZIO

                                                                Cittadino del Senisese, Sud nel Sud d’Italia

 


Senise: una comunità alla ricerca della propria identità

(risposta all'Editoriale "Sodoma, Gomorra e Senise")

di Maria Teresa Bellusci, Presidente Consiglio Comune di Senise

 

Cara Maria Paola, siamo tutti rimasti molto colpiti dallo sfogo/denuncia apparso su La Siritide che hai voluto iniziare con la frase “Senise è morta” e che meritava forse un punto interrogativo, per lasciare un varco alla speranza pur nel quadro pessimistico che hai tracciato della nostra comunità.

Un’analisi la tua che, purtroppo, non è il frutto di un pessimismo derivante da una occasione di delusione ma che, al contrario, oggi ci rimanda un’immagine lucida dei problemi oggettivi e della condizione sociale dei nostri territori.

Io voglio credere che la tua fosse una domanda e, allora, rispondo che Senise non è morta ma sicuramente, oggi, è una comunità alla ricerca della propria identità.

Anni di assistenzialismo, con le sue distorsioni clientelari aggravate dalla constatazione che neanche i governi di centro-sinistra nazionali e regionali hanno portato ad un’inversione di questa tendenza, hanno finito per incidere sulla perdita delle nostre radici, ci hanno fatto dimenticare la dignità dei nostri nonni e padri contadini, ci hanno portato a credere che la fatica non sempre paga, ci hanno sradicato dalla nostra terra in cerca di opportunità che qui continuavano a rimanere promesse. In questo Senise non è diversa dal resto della Basilicata e di tutto il Mezzogiorno d’Italia. Però vorrei anche dire che la nuova consapevolezza sociale che tutti noi cittadini di Senise, in particolare i giovani, stiamo faticosamente ricostruendo, e a cui tu e tutti gli amici de La Siritide state dando in questo momento il contributo maggiore e più visibile, va incoraggiata  e sostenuta anche nei momenti in cui sembra venir meno e lo sforzo sembra inutile.La società e l’economia italiane vivono una crisi seria ma la politica ne vive una ancora più forte, non dobbiamo nascondercelo, anzi dovremmo vivere questa crisi come l’opportunità di ricostruire il patto sociale e il rapporto con la politica su nuove basi. La debolezza della politica può esaltare non avvilire il protagonismo dei cittadini, poiché le istituzioni democratiche ci danno tutti gli strumenti e le garanzie per avere un rapporto diretto con le amministrazioni, le istituzioni, i partiti, ecc.

Imparare ad usare la Democrazia deve essere la nostra nuova sfida di cittadini sempre più attivi e penso che questa sia la risposta alla più bella delle domande che pone il tuo sfogo: “perché altre comunità, in posti disagiati e svantaggiati come i nostri, invece, ce l’hanno fatta?”.  Quando dico “imparare ad usare la democrazia” non mi riferisco naturalmente solo alle elezioni, momento molto delicato della vita democratica ma che necessita a monte di ben altre azioni, idee e impegno civile per concretizzarsi in una scelta consapevole e libera.

La grande ricchezza di Senise come dell’Italia è il “capitale sociale” come tu stessa affermi. Dobbiamo trovare tutti insieme il modo di metterlo in moto e in questo i giovani con l’Associazionismo, lo Sport, la Cultura, la Formazione e le Idee di nuove attività imprenditoriali possono essere i protagonisti della svolta e della rinascita.Per quanto riguarda l’Amministrazione comunale c’è una grande attenzione al tema della valorizzazione e della promozione dell’associazionismo e di tutte le forme di aggregazione giovanile. Il sindaco e i consiglieri di maggioranza concordano nel voler iniziare un lavoro serio con le associazioni e i giovani di Senise, le proposte emerse durante le ultime riunioni dei consiglieri di maggioranza si concretizzeranno a breve in una delega del sindaco a un consigliere o nell’istituzione di un Forum delle associazioni cittadine. Ci auguriamo che questo lavoro, che pensiamo sia ampiamente condiviso anche dai consiglieri di minoranza, si possa svolgere in un clima costruttivo e che coinvolga l’intero Consiglio comunale.

Voglio concludere ricordando a tutti che ci aspetta un periodo di grande lavoro e impegno se vogliamo usare in modo economicamente e socialmente produttivo i Fondi dell’acqua. Entro il 30 Settembre prossimo la Regione Basilicata dovrebbe approvare in forma definitiva il Programma per il Senisese ma già nella bozza programmatica è evidente come, oltre agli enti locali, i giovani e i privati sono chiamati a svolgere un ruolo da protagonisti apportando nuove iniziative imprenditoriali nelle attività produttive, nei servizi e nel turismo.

Dovremo essere bravi, tutti insieme, a cogliere questa occasione.

 


Lettera per un amico che non c'è più
di Giovanni Amendolara

Un saluto ad Alberto Ricciardi, scomparso tragicamente il 20 giugno 2007


e certo che ne possono capitare: sorrisi, lacrime, gioie e dolori, ma alcune cose non riescono ad andare via, a togliersi dai pensieri...
lo ricordo ancora poggiato alla ringhiera di fronte al suo bar mentre mi sorrideva e scherzava; lo ricordo ancora quando cominciava a parlare senza tregua senza mai stancarti; lo ricordo ancora quando mostrava il suo amore verso i suoi bambini, e ora non c'è più.
ha deciso di non riuscire a reggere quel peso enorme, anche se sorrideva ancora.
ha salutato felice tutto il paese.
mi ha mandato i saluti e un sorriso senza che io glieli avessi mandati, e solo dopo qualche ora ha voluto lasciarci, ha voluto lasciare un vuoto e una pesante rabbia, una rabbia verso il suo peso, il suo fardello...
mi mancherai.
a presto amico mio. arrivederci Alberto

Giovanni Amendolara (carpi-modena)


Morte, non andar fiera se anche t'hanno chiamata
possente e orrenda. Non lo sei.
Coloro che tu pensi rovesciare non muoiono,
povera morte, e non puoi uccidere.
Dal riposo e dal sonno, mere immagini
di te, vivo piacere, dunque da te maggiore,
si genera. E più presto se ne vanno con te
i migliori tra noi, pace alle loro ossa,
liberazione all'anima. Tu, schiava
della sorte, del caso, dei re, dei disperati,
hai casa col veleno, la malattia, la guerra
e il papavero e il filtro ci fan dormire anch'essi
meglio del tuo fendente. Perché dunque ti gonfi?
Un breve sonno e ci destiamo eterni.
Non vi sarà più morte. E tu, morte, morrai.

 

John Donne
 

(Grazie a Paolo, mitico cugino diventato ormai "svizzero", che mi ha segnalato questa bellissima poesia)

Mp

 


L'altro, dimenticato 11 Settembre

"Il vero americano non va all'estero in cerca di mostri da distruggere".
John Quincy Adams, 4 luglio 1821.

"Sono pronto a resistere con qualsiasi mezzo, anche a costo della mia vita, così che questo possa servire di lezione riguardo la vergognosa storia di quelli che usano la forza e non la ragione." Il dottor Salvador Allende, nel suo ultimo messaggio dalla radio al popolo cileno, 8.30 del mattino dell'11 settembre 1973.

“Care madri, cari padri delle persone rimaste uccise l’11 settembre 2001 a New York. Sono cileno, mi chiamo Ramon e vivo da molti anni a Londra. Volevo dirvi che forse abbiamo qualcosa che ci unisce. I vostri cari sono stati assassinati come pure i miei. Abbiamo anche una data in comune: 11 settembre. Nel 1970 ci sono state le elezioni in Cile e io votavo per la prima volta. Avevamo un bellissimo sogno: costruire una società in cui tutti potessero condividere il frutto del loro lavoro. Così in quel 1970 andammo tutti a votare per Salvador Allende. Insieme…..Madri, padri delle persone uccise l’11 settembre a New York. Presto ricorrerà un nuovo anniversario. Noi vi ricorderemo sempre. Spero vi ricorderete di noi”.

11 settembre 2001”, Ken Loach

Santiago del Cile. 1969. Il palazzo dell’Istituto superiore di commercio, Insuco 2, si erge su due piani, sopra case ancora più basse, e muri lunghi trenta metri, e i mille cantieri aperti della città. Da lontano può apparire come nuovo ma da vicino proprio non è così. L’intonaco quasi non esiste, i mattoni rossi sono a vista, le inferriate arrugginite, le scale interne cadono a pezzi, le stanze umide e fredde. Spesso insegnati e studenti sono costretti a seguire le lezioni in cortile. La scuola rappresenta il fiore all’occhiello dell’istruzione di base cilena. Sta in Avenida España, a pochi passi dal palazzo della Moneda, costruito per ospitare la Zecca poi divenuto il simbolo del potere politico, nel centro della Capitale.

Non sono poveri quei giovani che frequentano Insuco 2. Vivono in gran parte nei quartieri della media borghesia cilena, in luoghi dove la vita non conosce le sofferenze delle poblaciones. Città nelle città, agglomerati cresciuti senza forma e spazio architettonico. Nelle capanne ci piove dentro, le pareti e i tetti sono di cartone. Una fila di baracche allineate lungo sentieri di terra battuta. Se si passa in automobile, d’estate si solleva una polvere rossa fitta, d’inverno le strade si trasformano in un enorme pantano. Le persone accorrono in quegli anni a Santiago del Cile. Provengono da campagne, province, paesi sperduti. Fuggono da fame e miseria, viaggi difficili lungo la Panamericana. Loro conservano due sogni nascosti: un lavoro sicuro e un’abitazione decorosa per la propria famiglia. Quando raggiungono la metropoli ritrovano invece una realtà diversa. L’impiego non c’è per tutti. Allora si arrangiano come possono, s’inventano lavori saltuari, pochi soldi buoni per mettere qualcosa nella pentola di casa, un osso per il brodo, spiccioli per comprare vestiti a quei bimbi che corrono scalzi lungo gli sterrati delle baraccopoli e che gridano al mondo la loro infelicità.

Hector “Mono” Carrasco, a quattordici anni è già adulto e la sua coscienza politica è sviluppata. Viene da una famiglia comunista. Il padre è un sindacalista del settore grafico, la madre è sarta, lavora per gli ambasciatori europei in Cile e insegna a costruire bambole di pezza. All’Insuco 2, Hector studia pubblicità, disegno artistico e comunicazione. Ogni giorno si alza alle sei del mattino. La sua casa sta in Avenida Vicuña Mackenna 4467, cordone industriale di Santiago, ventidue chilometri da Plaza de Armas.

A scuola ci va in autobus, un viaggio dalla periferia al centro città. Hector li conosce bene quei quartieri poveri di Santiago. Per lui e il suo gruppo d’amici, la strada è come una seconda casa. Si gioca a pallone, ci si conosce e si cresce. Intorno a Hector si muove una generazione di ribelli. Sono giovani colti, curiosi, appassionati di letteratura e soprattutto con una spiccata propensione verso l’arte.

“Vidi i volti sporchi e anneriti di quei bambini, con gli stracci addosso, che correvano scalzi nel pantano. Scelsi subito da che parte stare”.

Il giovane “Mono” non ha più dubbi. C’è solo un modo per rendere migliore la vita della gente delle poblaciones: lottare per una società più giusta.

Nel 1969, il Cile è il cortile degli Stati Uniti. L'avvio della nazionalizzazione delle miniere di rame non porta i frutti sperati. I debiti del paese salgono oltre il livello di guardia, le esportazioni servono a pagare gli interessi. L'indipendenza economica resta un sogno: il 60% delle importazioni è legato agli Stati Uniti. La moderata crescita dei consumi si traduce nell’aumento dell’inflazione. Il divario tra città e campagna è notevole. A Santiago sono professori, infermieri, muratori le categorie sfruttate e mal pagate. I minatori di carbone vivono in condizioni disumane. Nelle case degli agglomerati urbani, di poco accanto alle miniere, non scorre neppure una goccia d’acqua. Ci si lava fuori, nei bagni pubblici. La situazione è diversa se si tratta di miniere di rame. In quel caso, le abitazioni sono dotate di cucine a gas, frigoriferi, elettrodomestrici.

La politica entra all’Insuco 2 dalla porta principale. Il vento caldo del maggio francese percorre da mesi migliaia di chilometri, da Parigi tocca Francoforte, Roma, Madrid, attraversa terra, mari e oceani, fino a Santiago del Cile, e s’infila dirompente lungo i corridoi di quella scuola. E’ un vento che porta voci e speranze di ragazzi. Possono sembrare lontane, appartenenti perfino ad altri mondi. Le parole portano impronte differenti ma c’è qualcosa che le unisce e le fa divenire cose vive: il desiderio di cambiare in fretta, di sostituire i valori arcaici delle vecchie società in nuovi modelli di riferimento. Ecco perché, come d’incanto, anche i ragazzi di Santiago comprendono che gli idiomi non sono più barriere insormontabili. Ormai tutti parlano la stessa lingua.

In Cile sono giorni di grande tensione sociale. Nel giugno '69, i servizi di sicurezza scoprono un centro d’addestramento alla guerriglia vicino a Santiago: vengono alla luce armi e munizioni del Mir, Movimento de Izquierda Rivolucionaria. A Melipilla, non lontano dalla capitale, i contadini occupano 44 haciendas agricole e Arturo Jorge Alessandri, il candidato della destra, non riesce a raggiungere il sud del paese perché i minatori sbarrano la ferrovia al suo passaggio. Il 29 settembre 1969, il reggimento di Yungai, il corpo d’élite dell'esercito, arriva in ritardo al “Te Deum” in onore del presidente della Repubblica. Sei ufficiali sono cacciati. Il generale Viaux, comandante del primo corpo d'armata, occupa una caserma di Santiago per protesta contro le paghe basse dell'esercito. Sono i primi segnali.

I ragazzi dell’Insuco 2 si organizzano. Davanti alla scuola, in prima fila c’è sempre Hector, magro, con quei capelli neri che hanno il colore dell’inchiostro.

“Le lotte erano all’ordine del giorno. In piazza non c’erano solo gli studenti. I professori erano mal pagati, insegnavano per vocazione. Le loro proteste per un salario degno di un essere umano si sono mischiate alle nostre richieste d’autonomia. Avevamo creato Centri Studenteschi nelle principali scuole superiori del Cile. Io ero stato eletto in quell’anno dirigente del Centro all’Insuco 2. Ero già militante della Gioventù comunista. Le nostre lotte non erano però ideologiche, si basavano su rivendicazioni concrete. La scuola era fatiscente, quindi chiedevamo strutture nuove e attrezzate. Partecipai alla più lunga occupazione di una scuola cilena. Durò sei mesi”.

Hector non possiede modelli di riferimento. E’ comunista per tradizione di famiglia e per scelta politica ma non sopporta le dittature e i soprusi. Guarda a Cuba, a Che Guevara, studia i testi del marxismo, ma pensa che non si possono importare altri sistemi economici perché ogni paese è un caso a parte.

“Guardavamo al sistema cubano ma anche alle rivolte europee, al maggio francese. Non può esserci socialismo senza democrazia. L’autonomia universitaria, le elezioni degli organismi interni agli istituti le abbiamo ottenute ben prima dell’Europa”.

Dai televisori in bianco e nero, le immagini che giungono dal Vietnam sono ancora più sfuocate. I B52 americani scaricano tonnellate di bombe al napalm sui villaggi. I contadini sono in fuga nelle campagne, si rifugiano nei nascondigli sotto terra, nei tunnel scavati a mano. Ognuno come può. Piccoli uomini con il cappello di paglia che chiamano vietcong combattono ormai da anni una guerra impari. Da una parte la potenza e la tecnologia, dall’altra l’astuzia e la conoscenza del territorio. In Cile, come in tutto il mondo si organizzano proteste contro l’invasione americana del nord Vietnam. 160 chilometri separano Valparaiso da Santiago. E i cileni intendono compierli in pochi giorni. E’ una marcia che coinvolge migliaia di persone.

“Era un lungo serpentone. In ogni paese c’erano spettacoli. Ricordo i volti sorridenti di Victor Jara e di molti altri artisti cileni. Noi eravamo un gruppo di amici. Con una jeep americana della seconda guerra mondiale seguivamo la marcia. E in quell’occasione ha fatto la sua prima uscita pubblica il gruppo di propaganda murale Ramona Parra, in onore di un’operaia tessile uccisa in una manifestazione nel 1947. Non eravamo ricchi, quindi i nostri strumenti di lavoro erano barattoli di polvere di colore, praticamente terra. Con l’acqua e la farina cotta diventava una sostanza appiccicosa che si attaccava bene ai muri. Si scrivevano parole d’ordine, slogan. Su quella jeep c’era un ragazzo più grande di noi. Lo chiamavamo Fantomas detto “El Fanta”. Si nascondeva dentro il suo impermeabile blu, i capelli rasati. Solo anni dopo scoprimmo che era una spia, un infiltrato. Poi divenne un torturatore. E’ l’anno di Salvador Allende”.

I ragazzi come Hector sanno già molto di Salvador Allende. Nasce il 26 giugno 1908 a Valparaiso, città portuale del Cile. Il padre è Salvador Allende Castro, avvocato e notaio, militante del Partito Radicale. La madre è Laura Gossens Uribe. Nel 1920, il padre viaggia e si porta con sé la famiglia:Tacna, Iquique, Santiago, Valdivia. Fino al 1925 studia al liceo Eduardo. Poi fa piccoli lavoretti. Conosce Juan Demarchi, un anarchico italiano che gli regala i primi libri politici. Sempre nel ’25 arriva la cartolina del militare. Salvador Allende la anticipa di poco: si arruola come volontario nel Reggimento Corazzieri di Vina del Mar.

Viene poi trasferito al reggimento Lancieri a Tacna. Esce con la qualifica di Ufficiale di riserva dell’esercito. Nel’26, si iscrive all’Università di Santiago, facoltà di medicina. I suoi compagni lo eleggono Presidente del Centro Alunni di Medicina. Iniziano i primi studi sul marxismo.

Nel ’29 si iscrive alla massoneria e segue così la tradizione della famiglia. L’anno dopo, è Presidente della Federazione Studenti del Cile e partecipa in modo attivo alla lotta contro la dittatura di Carlos Ibanez. Nel ’31, termina i suoi studi e torna a Valparaiso per assistere il padre infermo. Mentre redige un trattato su “Igiene Mentale e Delinquenza”, svolge la sua pratica professionale. Giugno 1932. Viene proclamata la Repubblica Socialista guidata da Marmaduke Grove. Dopo la fugace esperienza socialista, il nuovo governo comincia la persecuzione degli elementi progressisti. Allende è incarcerato. Mentre rimane in prigione, muore il padre: sulla sua tomba, il giovane medico giura di dedicare la sua vita alla lotta per la libertà del Cile. Il 19 aprile 1933 partecipa alla nascita del Partito Socialista del Cile, insieme a Eugenio Matte Hurtado, Marmaduke Grove, Eugenio Gonzalez, Oscar Schnake. Nel marzo 1936, partecipa alla creazione del Fronte Popular, e diventa Presidente provinciale a Valparaiso. Il Fronte Popular proclama la candidatura di Pedro Aguirre Cerda. Allende è il massimo responsabile della campagna elettorale a Valparaiso. Nel ’42, assume la carica di segretario generale del Partito Socialista. Dieci anni dopo nasce il Frente del Pueblo, l’alleanza tra socialisti e comunisti. Del progetto politico, Allende è uno dei fondatori.

Nel ’57, socialisti e comunisti si associano in un cartello elettorale, il Frap. Allende è il candidato naturale ma alle elezioni del’58 perde contro l’uomo di destra Jorge Alessandri. 1959. Visita La Habana, per conoscere il processo rivoluzionario cubano e conosce Che Guevara e Fidel Castro. Nel ’63, il congresso del Frap lo designa candidato alla Presidenza della Repubblica. Sconfitto nel 1964 da Eduardo Frei Montalva, Allende ottiene quasi un milione di voti. Nel 1969, l’anno della presa di coscienza di Hector e della nuova generazione cilena, Salvador Allende crea Unidad Popular. E’ il cartello delle sinistre che comprende Partito Socialista, Partito Comunista, Mapu(Movimento di azione di unità popolare), la Izquierda Cristiana, il Partito Radicale. Hector aderisce alla coalizione di sinistra. Per vincere.

“Il Cile era diviso. Quando iniziò la campagna elettorale presidenziale nel 1970, ognuno diede il suo contributo per ciò che sapeva fare. Andavamo nei quartieri popolari di Santiago a fare propaganda per Allende. Le iniziative si chiamavano Amanecer Venceremos, la domenica invece Domingos Solidarios. Era un lavoro capillare, casa per casa a distribuire volantini, materiali politici, giornali. Soprattutto si parlava con le persone, dei loro problemi, di come risolverli. Il clima era eccezionale. Sentivamo forte il desiderio di cambiare, di voltare pagina. In quei mesi, in Cile, erano attivi almeno novanta gruppi di propaganda murale. Io ero il responsabile di quello più importante, la Brigada Central. Con me c’erano Mafalda, Chico Richard, Gitano, Natacha, Chepa, Coyote, tutti ragazzi più o meno della mia età. L’attività durò in modo ininterrotto dal luglio al settembre 1970. Bisognava prestare attenzione. C’erano gruppi di fascisti in azione, quelli di Patria Y Libertad. Erano squadristi, gente armata e pronta a sparare. Il nostro lavoro era semplice ma complicato da realizzare. I muri erano lunghi trenta metri. Tutto doveva svolgersi in poco tempo, tre minuti appena. Non uno di più. Ci si presentava con i barattoli di vernice bianco, blu, rosso e verde. Sui lunghi muri si scriveva: ‘Vota Salvador Allende’, ‘Allende tres’ (il numero della scheda), ‘Unidad Popular’. Accadeva da mezzanotte alle sei del mattino. Poi si andava a scuola e al lavoro. Davanti a quei muri, trasformati in cartelloni pubblicitari, tra noi nasceva una grande amicizia, forte e robusta che neppure la morte e la dittatura ha scalfito”.

4 settembre 1970. Un terremoto politico investe l'America Latina. Si conclude lo spoglio delle schede: Salvador Allende, al suo quarto tentativo, conquista la maggioranza relativa alle elezioni presidenziali. Sul Cile si accendono subito i riflettori del mondo. Per la prima volta un socialista diventa capo di un governo nell'emisfero Ovest grazie a una vittoria elettorale, senza una insurrezione armata. Per Allende, votano 1.070.334 persone, il 36,2% dell'elettorato, contro gli 821.501 suffragi (il 27,4 %) raccolti da Rodomiro Tomic, il candidato della Democrazia Cristiana. L'alleanza delle sinistre batte di misura Jorge Alessandri, ex primo ministro sostituito nel '64 dal democristiano Eduardo Frei. Il candidato della destra raccoglie 1.031.159 voti, 39.175 in meno di Unidad Popular. Allende è in testa, ma di poco. Quella sera, per Hector e i ragazzi di Santiago, quel che conta è la vittoria di Unidad Popular. E questo a loro basta e avanza.

“La sera della vittoria di Allende ero di turno al comitato centrale della Gioventù Comunista in calle Marcoleta 96. C’era pericolo di attacchi di gruppi fascisti di Patria Y Libertad. La radio trasmetteva lo spoglio elettorale. A un certo punto qualcuno gridò e altri si abbracciarono. In pochi minuti Santiago esplose. Migliaia di persone si accalcarono davanti alla sede della Fech, la Federazione Studentesca del Cile. Salvador Allende portava gli occhiali neri e un sorriso straordinario. Sventolava dal balcone la bandiera del Cile. La gente usciva dalle case con le chitarre, era festa ovunque. Nessuno, a quel tempo, comprese il senso della storia. Allende ci disse per la prima volta che gli occhi del mondo erano puntati sul Cile. Il 5 settembre realizzammo il primo murales in Alameda Bernardo O’Higgins, di fronte a Calle Portugal. Lo avevamo dipinto con i colori avanzati dalla campagna elettorale. Era il primo raffigurante volti e mani di persone ”.

Unidad Popular non rappresenta dunque la maggioranza nel paese. Allende deve scendere a patti con il Parlamento, cui spetta il potere di ricusare il capo dello Stato e i ministri, controllato dai democristiani e dalla destra. Allende non ha potere sulla Controleria General de la Republica, responsabile degli atti amministrativi dell'esecutivo e della magistratura. Allende non può contare nemmeno sulla compattezza di Unidad Popular. La via pacifica e parlamentare al socialismo viene osteggiata a sinistra dal Mir, il Movimiento de Izquierda Revolucionaria. La direzione del partito socialista, guidata da Carlos Altamirano, non esclude la "via violenta" mentre Aniceto Rodrìguez, leader dell'ala riformista del partito é in minoranza. L'alleato più fidato di Allende resta il Partito Comunista di Luis Corvalàn. L’interesse internazionale è grande, la via cilena al socialismo affascina scrittori, giornalisti, intellettuali, studenti. Quando raggiungeranno il Cile, Hector e i ragazzi di Santiago li aiuteranno a comprendere il senso di una rivoluzione.

“Nei mesi estivi dopo la vittoria di Allende, in Cile arrivarono ragazzi e volontari da ogni parte del mondo. Tutti erano interessati al nuovo Cile. Volevano scoprire il segreto di questo Paese che si era permesso di costruire un governo diverso ed era andato al potere per vie democratriche. In molti decisero di vivere a Santiago. Erano italiani, argentini, brasiliani e nordamericani. Bisognava dargli da mangiare, da dormire, organizzare il loro lavoro. Conobbi decine di persone straordinarie, curiose, che si portavano dietro passione politica e civile”.

La partita si gioca tra il 15 settembre e il 24 ottobre 1970, quando il Congresso si riunisce per l'elezione del Presidente. "Deve sapere che non lasceremo arrivare in Cile una sola vite o un solo dado, sotto Allende. Se Allende assumerà il potere faremo tutto il possibile per condannare il Cile e i cileni alle più dure privazioni e miserie. Non si faccia illusioni signor Frei". (Lettera dell'ambasciatore americano in Cile Korry al presidente uscente Frei) . Scrive Carlos Prats, l’unico generale fedele al governo Allende: "Frei ha riunito me, il generale dei carabineros e i comandanti delle forze armate per dirci che l'ascesa al potere di Allende ci farà cadere irreversibilmente nel marxismo". Fino al 1971, regge la collaborazione tra Unidad Popular e la Democrazia Cristiana. Allende accetta un emendamento alla carta costituzionale che prevede una clausola importante: l'esecutivo garantisce libertà civili, elezioni e libertà di espressione. La Democrazia Cristiana cilena, pur tra contrasti interni, si schiera con i vincitori delle elezioni.

"Track II" é il piano della CIA che prevede il sequestro del comandante in capo dell'esercito René Schneider. Il suo rapimento deve suscitare l'indignazione dell'esercito, l'ammutinamento e la cacciata di Salvador Allende. L'agguato a Schneider però non riesce. Gli assalitori sparano ma il generale si difende ed estrae la pistola. Schneider morirà due giorni dopo. Individuati i cospiratori, il complotto sortisce l'esito opposto: Allende, Frei, i generali delle forze armate sfilano per le vie di Santiago alla testa di un corteo funebre. Il congresso, pochi giorni dopo elegge Allende alla massima carica della Repubblica. È il 3 novembre 1970. Il Cile non è periferia del mondo. Scrive quel giorno il poeta Pablo Neruda: "Dai deserti di salnitro, dalle miniere sommerse di carbone, dalle alture terribili dove si trova il rame che le mani del mio popolo estraggono con fatica disumana è sorto un movimento liberatore di enormi proporzioni che ha portato alla presidenza del Cile un uomo chiamato Salvador Allende, perché realizzi atti di giustizia improrogabili".

Nel Governo socialista entrano volti nuovi e sconosciuti. Quattro ministeri (Finanze, Lavori pubblici, Case e Lavoro) vengono affidati ad operai. Allende lancia il programma dei quaranta provvedimenti. Viene distribuito mezzo litro di latte al giorno ai bambini cileni. Nasce il "Treno della Salute", l'istruzione primaria diventa gratuita, vengono ridotte le tasse per quella secondaria. 15 luglio 1971. Il Congresso approva la nazionalizzazione del rame e affida ad Allende la questione degli indennizzi. Nel dicembre 1971, il numero di banche e industrie controllate dallo stato è già raddoppiato da 31 a 62, mentre altre 39 imprese risultano requisite. Nelle campagne vengono espropriate 1300 proprietà fondiarie. Il prodotto interno lordo cresce dell'8,6%, la disoccupazione si dimezza nel giro di pochi mesi e l'inflazione scende dal 34 al 22 per cento. Crescono i consumi e le importazioni. La strategia funziona ma il pericolo di un sovvertimento delle istituzioni democratiche è sempre dietro la porta. Così Hector viene inviato a Cuba per una missione segreta.

“All’interno della Gioventù Comunista si formò una struttura semilegale. A Cuba venni inviato dal partito per un corso di arte militare. Bisognava preparare i quadri alla difesa, non certamente all’attacco. La difesa doveva servire da attacchi esterni e interni contro il Governo di Allende. Erano già iniziati scioperi, attentati alle fabbriche, omicidi politici, ferimenti. Il corso durò otto mesi. Ci istruivano a utilizzare armi da guerra, guerriglia urbana, metodi di controspionaggio. Diventai istruttore dal ’72 fino al giorno del colpo di stato. Noi non possedevamo la quantità di armi di cui c’era bisogno per contrastare un golpe. Poi non potevamo allargare questi strumenti perché avevamo scelto una via pacifica. Lo avevamo promesso alla gente che ci aveva votati”.

Fino al dicembre ’71, il ciclo virtuoso sembra inattaccabile. Poi inizia il declino. Gli investimenti sono a quota -71,3%. La caduta del prezzo del rame, a causa della pressione delle multinazionali americane fa precipitare il valore delle esportazioni. In un anno le riserve crollano da 343 a 32 milioni di dollari, le importazioni di macchinari industriali del 22%. Grazie alle pressioni americane sulla Banca Mondiale e sul Banco Interamericano de Desarrollo, i crediti passano dai 300 milioni di dollari all'anno a meno di 30. Il quadro economico peggiora.

Un'inchiesta del settimanale Ercilla rivela che l'azione del Governo Allende è sentita come una minaccia dal 60% della popolazione e che il 77% della classe media non riesce ad acquistare beni di prima necessità. Le donne dei ceti medi e alti organizzano la cosiddetta "marcia delle casseruole". Nell’agosto ’72, i commercianti al dettaglio dichiarano lo sciopero generale. Poi tocca ai camionisti. Da una parte il Governo, dall’altra Leòn Villarin, segretario del sindacato dei trasporti. Il paese è diviso in due. I commercianti abbassano le serrande, i sostenitori del governo assaltano i negozi chiusi. Medici, avvocati, scuole e università scendono in sciopero, gli imprenditori proclamano la serrata. Gli operai replicano con le occupazioni. Di notte nei quartieri alti si sente forte il suono delle casseruole, mentre i camioneros di Patria y Libertad, gruppo paramilitare di destra, disseminano le strade di bande chiodate. La CIA finanzia i 10 mila camionisti, con oltre un milione di dollari.

1973. Le elezioni parlamentari di marzo offrono alla coalizione di sinistra la stessa percentuale del '69. Non è abbastanza per consolidare il governo, ma è sufficiente per impedire che la destra chieda la destituzione di Salvador Allende. La campagna elettorale si svolge sotto l'attenta supervisione delle forze armate. Da maggio la situazione precipita. In una riunione di 800 ufficiali della guarnigione di Santiago, il generale Carlos Prats viene fischiato. Allende dichiara lo stato di emergenza per arginare gli scontri tra opposte fazioni. La Democrazia Cristiana sceglie il suo nuovo segretario. È Patricio Alwin, dell'ala destra intransigente. Anche la Chiesa, contraria alla riforma scolastica, si schiera contro il governo. Il 29 giugno c’è il primo tentativo di golpe. Il colonnello Roberto Souper, a capo di un reggimento di blindati, intima la resa della guardia del palazzo della Moneda. Ma l’operazione fallisce. Quando Allende giunge alla Moneda si odono solo spari isolati. L’aria è comunque pesante e non promette nulla di buono. Ci sono strani movimenti tra gli alti vertici delle forze armate. Unidad Popular intende conoscere chi sta dietro alle operazioni coperte. Hector guida in quei giorni la rete di informatori.

“Il colpo di stato non ci trovò impreparati. Avevamo una rete di informatori che ci fornivano notizie, segnali che dall’altra parte si stava preparando qualcosa di grave contro Allende. Eravamo praticamente dappertutto. Un nostro informatore lavorava al club di golf di Santiago. Era un luogo esclusivo, frequentato da alti vertici militari e dall’ambasciatore americano a Santiago. La segretaria del diplomatico si era invaghita di questo ragazzo. Gli passava informazioni riservate sui movimenti di soldi e sui finanziamenti ai golpisti, ai politici di destra che frequentavano l’ambasciata in riunioni private”.

Il 9 settembre 1973 cade di domenica. Allende invita a pranzo i più importanti dirigenti di Unidad Popular e li informa che proporrà un referendum. Poche ore dopo, sempre a Santiago, il generale Augusto Pinochet Ugarte festeggia nella sua casa il compleanno della figlia. Tra gli ospiti c’è il comandante dell’aeronautica Leight. Sono le 17. Suona il campanello. Alla porta ci sono due ufficiali della Marina. Vogliono parlare con Pinochet. Sono l’ammiraglio Huidobro e il capitano Gonzales, vengono da Valparaiso e portano un messaggio del vicecomandante Merino .”Gustavo e Augusto- dice nella lettera Merino- vi comunico che il D.Day è fissato per l’11 settembre a partire dalle 6 del mattino. Se pensate di non poter schierare tutte le forze di cui disponete a Santiago, chiaritemelo sul rovescio del foglio. L’ammiraglio Huidobro è autorizzato a discutere e a mettere a punto ogni dettaglio. Vi saluto con amicizia e con speranza. Merino”. Sul retro c’è un post scriptum indirizzato proprio a Pinochet. “Augusto, questa è l’ultima occasione. Se a Santiago tutto l’esercito non sarà con te fin dal primo momento, per noi sarà la fine. Pepe”. I generali Leight e Pinochet si scrutano, osservano in modo attento il dispaccio, non si perdono neppure una parola. Alla fine, Leight sottoscrive l’accordo. Pinochet esita un istante, poi firma e imprime sul documento il timbro del Comando in Capo dell’Esercito del Cile.

Il 10 settembre. Mancano 36 ore al colpo di Stato. Allende perfeziona alla Moneda il testo del discorso per la convocazione del plebiscito. Il generale Pinochet prende il timone del golpe. Davanti alla spada di O’ Higgins, il padre della patria, fa giurare uno dopo l’altro i generali Brady, Benavides, Arellano e Palacios, e il colonnello Polloni. E’ sera. Allende annulla il suo viaggio ad Algeri alla riunione dei capi di Stato dei cinque continenti. La situazione politica è troppo delicata per allontanarsi da Santiago. Il Presidente esce dalla Moneda che è già buio. Sono gli attimi in cui al quinto piano del Ministero della Difesa, il generale Nicanor Dìaz Estrada entra in azione e ordina lo stato d’allarme di primo grado a partire dalle sei del mattino del giorno dopo. Nella casa presidenziale, Allende riunisce i collaboratori più stretti. Il suo volto è segnato dalla stanchezza. Giungono voci di tradimenti da parte di generali e colonnelli. “Da mesi non dormirei se dovessi dar retta a ogni voce. Domani ci aspetta una giornata dura”, dice Allende al suo consigliere Joan Garcés.

11 settembre 1973. Le quattro del mattino. Le strade di Santiago sono ancora deserte. Il colonnello Julio Polloni raccoglie ingegneri e operatori scelti per eseguire il “Piano silenzio”, interrompere le comunicazioni telefoniche e chiudere i trasmettitori delle radio filo governative. Alle cinque intanto, alla casa presidenziale, Allende riceve una telefonata. Dall’altro capo dell’apparecchio c’è il generale Jorge Urrutia, vice comandante dei Carabinieri. “Le truppe della Marina si stanno radunando nelle strade di Valparaiso, sono già uscite dalle caserme”. L’ordine di Allende è categorico: chiudere subito la strada che collega Valparaiso a Santiago. L’ufficio del viceammiraglio Patricio Carvajal nel Ministero della Difesa si trasforma dalle sei del mattino nel quartiere generale dei golpisti. Si trova a pochi metri dal Palazzo della Moneda, un luogo strategico per controllare gli spostamenti di Allende e dei suoi uomini.

Le sei e mezza. Allende si veste nel modo più informale: pantaloni grigi, giacca di tweed, golf di cachemire a collo alto. Al capitano dei Carabinieri José Munoz, Allende dice: “Andiamo alla Moneda, scelga la strada migliore e più rapida”. Le automobili Fiat 125 blu escono dalla casa presidenziale. Un ufficiale della Polizia Civile osserva la loro manovra a distanza, attiva il suo apparecchio radio e informa il Ministero della Difesa della partenza di Allende. Il golpe è in atto. I blindati dei carabinieri si appostano intorno alla Moneda. Alle sette e trenta, il Presidente entra dal cancello principale della sede del Governo con le auto in carovana, scende dalla vettura e sale per l’ultima volta la scala di marmo che porta al primo piano. La prima chiamata è del leader socialista Carlos Altamirano. “Dissi ad Allende che la Moneda era un luogo pericoloso per guidare le operazioni: c’era una sollevazione della Marina e i generali dell’Esercito e dell’Aviazione non rispondevano al telefono, sembravano volatilizzati”. Allende prende fiato e risponde al senatore socialista: “No, ti sbagli Carlos, il posto del Presidente è il Palazzo della Moneda, nessun altro”. In quel preciso istante, a duecento metri di distanza, i golpisti arrestano il ministro della Difesa Osvaldo Letelier. Nello studio presidenziale, tre telefoni sono collegati direttamente con le radio Magallanes, Corporaciòn e Portales. Alle sette e cinquantacinque, Allende prende il microfono e diffonde la sua prima comunicazione. Annuncia l’infedeltà alla democrazia delle truppe della Marina e chiede ai cittadini di raggiungere i propri posti di lavoro, mantenendo la calma.

“ In ogni caso, io sono qui, nel palazzo del Governo, e resterò qui difendendo il governo che rappresento per volontà del popolo”.

Due minuti dopo, un aereo militare distrugge l’antenna trasmittente di Radio Corporaciòn. Il primo proclama militare viene emesso dalla catena radiofonica della destra alle otto e trenta. La voce dura e sgraziata del tenente colonnello Roberto Guillard impartisce gli ordini. “ Tenendo presente la gravissima crisi sociale e morale che mette in pericolo in Paese, il signor Presidente della Repubblica deve procedere alla immediata consegna del suo Alto mandato alle Forze Armate e ai carabinieri del Cile”. Segue la firma di tutti i generali coinvolti nel colpo di Stato. Allende torna a parlare da Radio Magallanes, in aperta sfida ai golpisti.

“Non darò le dimissioni. Denuncio davanti al Paese l’incredibile atteggiamento di soldati che mancano alla loro parola e al loro impegno. Faccio presente la mia decisione irrevocabile di continuare a difendere il Cile nel suo prestigio, nella sua tradizione, nella sua forma giuridica, nella sua Costituzione”.

Gli aerei militari volano sempre più bassi sopra la Moneda. Allende, i suoi consiglieri, la guardia presidenziale (Gap) è appostata all’interno del palazzo. I Carabinieri e la Polizia Civile presidiano ormai buona parte della città. Il Presidente è ancora seduto nel suo ufficio con il microfono in mano.

“ In questo momento passano gli aerei. E’ possibile che ci bombardino. Però sappiate che restiamo qui per dimostrare, per lo meno con i nostro esempio, che in questo Paese ci sono uomini che sanno compiere il loro dovere…”.

Alla Moneda, giunge la telefonata del viceammiraglio Patricio Carvajal che propone ad Allende un salvacondotto: un aereo per lui e per la famiglia che li possa portare lontani dal Cile. Allende risponde: “ Ma cosa avete creduto, traditori di merda. Mettetevi in vostro aereo nel culo. Lei sta parlando con il Presidente della Repubblica. E il Presidente eletto dal popolo non si arrende”. Allende è preoccupato per le sorti del Paese ma non perde la calma. Prende il fucile Aka e se lo mette in spalla. Poi passa in rassegna le sue truppe di difesa. Diciotto detective, venti uomini del Gap, ministri e collaboratori. Meno di cento persone. Sull’impugnatura dell’ arma, si può scorgere una placca di bronzo con la scritta: “A Salvador, da suo compagno d’armi Fidel Castro”.

La scena si sposta poco dopo nella sala degli addetti militari. Davanti ad Allende, ci sono tre ufficiali golpisti, Sànchez, Badiola e Grez. “ Presidente, devo trasmetterle il messaggio della mia istituzione. La Forza aerea ha preparato un Dc6 con l’ordine di portarla dove lei vorrà. Ovviamente il viaggio include la sua famiglia e le persone che lei ritiene di portare con sé”, dice il comandante Sànchez. Ma Allende è pronto al suo ultimo sacrificio: “No, signori, non mi arrenderò. Dite ai vostri Comandanti che non me ne andrò da qui, che non mi consegnerò. Questa è la mia risposta. Non mi tireranno fuori vivo da qui, anche se bombarderanno la Moneda. E guardate, l’ultimo colpo me lo sparerò qui…E ora andatevene via da qui. Tornate alle vostre Istituzioni, è un ordine ”.

In quelle ore, Hector Carrasco si trova nella sede della Gioventù Comunista.

“In quelle prime ore dell’11 settembre, nelle sede della Gioventù Comunista squillavano i telefoni in continuazione. Nessuno però sapeva cosa stesse accadendo. Le stazioni radio comunicavano notizie frammentarie e i telefoni tornavano a suonare. C’erano due stanze dove normalmente si riunivano i componenti dei gruppi di autodifesa. Mi trovai davanti al responsabile, Galvarino Diaz. Mi disse: ’Santiago brucia, Hector, non ci sono più dubbi. E’ necessario far uscire tutte le armi da qui. Potrebbero arrivare i militari da un momento all’altro, non le devono trovare. Possiamo utilizzare la Fiat 600 di Miriam’. Così iniziò il nostro viaggio a Santiago in quel 11 settembre di trenta anni fa”.

Non c’è tempo da perdere. Il golpe è in atto e i militari attendono solo il momento propizio per arrestare i militanti della Gioventù Comunista. Hector, Miriam, Galvarino e Mao nascondono le armi sotto i sedili della vettura: due Colt 45, una Thompson, tre mitragliette Uzi e quattro bombe a mano. Si dirigono verso i quartieri operai della città. L’obiettivo è trasportare l’arsenale nella poblacion di La Victoria. Il viaggio è lungo e rischioso, i posti di blocco dei militari sono ovunque. Da lontano scorgono un gruppo di soldati con una fascia sul braccio sinistro. Fermano ogni macchina, Monocicletta, persone a piedi e in bicicletta. Loro si fanno ancora più piccoli dentro quella 600. Dieci soldati con i fucili puntati li bloccano, intimano di scendere. Poi si trovano fuori, con le braccia appoggiate alla vettura mentre i soldati iniziano la perquisizione.

“I vostri documenti dove sono? Dove state andando? Da quale zona provenite?”. Hector sente un brivido dietro la schiena e pensa: “Accidenti…la tessera della Gioventù Comunista.. sta nel portafoglio”. “Che cos’è quella tessera azzurra”- gli chiede un ufficiale dell’esercito. Hector risponde con calma: “E’ la tessera d’iscrizione al club degli universitari che si occupano di cultura, sport e ricreazione”. Sul tesserino non c’è il simbolo del Partito, c’è il disegno di una margherita con i colori giallo, blu e azzurri. Hector è convinto di averla fatta franca ma ci sono ancora le armi nell’auto. Un soldato si avvicina a Miriam, capelli biondi, il corpo snello, gli occhi languidi e azzurri. Dalla borsa, lei estrae un porta-documenti verde. Sulla parte esterna è ben visibile lo stemma del Rotary Club, sede di Arica. A quel punto, il militare si mette sull’attenti: “ Signorina, perché non ha detto subito chi era? E cioè la figlia di Don Gustavo? Se lo avessi saputo prima le avrei evitato tutti questi inconvenienti”. Così ordina agli altri militari di interrompere la perquisizione. Miriam è figlia del Presidente del Rotary e i soldati hanno un’ammirazione profonda per quel club.

I ragazzi sono salvi ma il viaggio non si è ancora concluso. Lungo la Panamericana camminano migliaia di persone, a piedi, senza una meta definita. In giro si vedono pochi autobus. In quel preciso momento, Galvarino chiede a Miriam di accendere la radio. E lei gira veloce la manopola. “Siamo in contatto con Radio Magallanes”, urla a gran voce. Dagli altoparlanti si sentono le ultime parole di Salvador Allende. Hector, Miriam, Mao e Galvarino sono ormai lontani. Le loro armi sono già al sicuro.

“…..Lavoratori della mia patria: voglio ringraziarvi per la lealtà che sempre avete avuto, la fiducia che avete posto in un uomo che fu solo interprete di grandi aneliti di giustizia, che impegnò la sua parola di rispettare la costituzione e la legge, e così fece. In questo momento definitivo, l'ultimo in cui posso rivolgermi a voi. Spero che impariate dalla lezione. Il capitale straniero, l'imperialismo, unito alla reazione, ha creato il clima perché le Forze Armate rompessero con la loro tradizione (...) Mi rivolgo soprattutto alla donna modesta della nostra terra: alla contadina che credette in noi, all'operaia che lavorò di più, alla madre che conobbe la preoccupazione per i figli. Mi rivolgo ai professionisti, patrioti, a coloro che da giorni stanno lavorando contro la sedizione appoggiata dai collegi professionali, collegi di classe creati anche per difendere i vantaggi di una società capitalista. Mi rivolgo alla gioventù, a coloro che cantarono e donarono la loro allegria ed il loro spirito di lotta; mi rivolgo all'uomo del Cile, all'operaio, al contadino, all'intellettuale, a coloro che saranno perseguitati, perché nel nostro paese il fascismo già da molte ore è presente con molti attentati terroristi, facendo saltare ponti, tranciando linee ferroviarie, distruggendo oleodotti e gasdotti, di fronte al silenzio di chi aveva l'obbligo di intervenire. Si sono compromessi. La storia li giudicherà. Sicuramente Radio Magallanes, sarà oscurata ed il metallo tranquillo della mia voce non giungerà a voi. Non importa mi sentirete comunque. Sempre sarò con voi, per lo meno il mio ricordo sarà quello di un uomo degno che fu leale alla patria. Il popolo deve difendersi, ma non sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi colpire e crivellare, ma nemmeno può umiliarsi. Lavoratori della mia patria: ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio ed amaro, nel quale il tradimento pretende d'imporsi. Proseguite voi, sapendo che, non tardi ma molto presto, si apriranno i grandi viali alberati dai quali passerà l'uomo libero, per costruire una società migliore.Viva il Cile, viva il popolo, viva i lavoratori!...queste sono le mie ultime parole, ho la certezza che il sacrificio non sarà vano. Ho la certezza che, almeno, ci sarà una sanzione morale per punire la fellonìa, la codardia ed il tradimento”.

Un silenzio sorprendente resta sospeso nell’aria di Santiago del Cile quando Allende ritiene di aver finito il suo discorso. Il suo ultimo appello al Paese. Poi giunge la morte, improvvisa, fulminea. Gli aerei colpiscono la Moneda, il fumo acre, i blindati dei Carabinieri si fanno sempre più pressanti, i collaboratori di Allende escono dal palazzo. Dentro al palazzo i pochi rimasti con Allende si mettono le maschere antigas, poi sparano dalle finestre. Le pallottole, le bombe, la battaglia, fino a quell’ultima parola del Presidente ascoltata dal detective David Garrido: “Allende non si arrende”. Le quattordici e un quarto. Allende si uccide con l’ultima pallottola rimasta nel suo Aka. Proprio come ha promesso ai militari infedeli. Si uccide perché non intende dargliela vinta.........

 

 da http://www.retedigreen.com/cile.htm

 


Ho recuperato il testo di questa splendida canzone dedicata a Napoli (ma, per intensità e significato potrebbe essere dedicata a tutte le ingiustizie, gli abusi e gli abusivismi del mondo). é un testo scritto e cantato da Federico Salvatore...eh già, quello di Azz...! e delle ballate del peto. Ma mentre Azz...! veniva mandata mille volte al giorno in radio ed era diventata una specie di ossessione orchestrale televisiva, "Se io fossi San Gennaro" non l'ho mai ascoltata nè alla radio (in verità solo con Jack Folla) nè tantomeno in Tv. Buona lettura

Mp

 

Se io fossi san Gennaro non sarei cosi' leggero
Con i miei napoletani io m'incazzerei davvero
Come l'oste fa i conti dopo tanto fallimento
Senza troppi complimenti sarei cinico e violento

Vorrei dire al costruttore del centro direzionale
Che ci puo' solo pisciare perche' ha fatto un orinale
Grattacieli di dolore un infarto nella storia
Forse e' solo un costruttore che ha perduto la memoria

Nei meandri dei quartieri di madonne e di sirene
Paraboliche ed antenne sono aghi nelle vene
E nei vicoli dei chiostri di pastori e vecchi santi
Le finestre anodizzate sono schiaffi ai monumenti

E' come sputare in faccia ai D'angio' agli Aragona
Cancellare via le tracce di una Napoli padrona
E' lo sforzo di cagare dell'ignobile pappone
Sulle perle date ai porci da Don Carlo di Borbone

E' percio' che mi accaloro coi politici nascosti
Perche' solamente loro sono i veri camorristi
A cui Napoli da sempre ha pagato la tangente
E qualcuno l'ha incassata con il sangue della gente

E per certi culi grossi il traguardo e' la poltrona
E per noi poveri fessi basta solo un Maradona
E il miracolo richiesto di quel sangue rosso chiaro
Lo sa solo Gesu' Cristo che quel sangue e' sangue amaro

Lo sa il Cristo ch'e' velato di vergogna e di mistero
Da quel nobile alchimista principe di Sansevero
E con lui lo sa Virgilio il sincero Sannazzaro
Giambattista della Porta che il colpevole e' il denaro

E nessuno dice basta per il culto della festa
E di Napoli che resta sotto gli occhi del turista
Via i vecchi marciapiedi che hanno raccontato molto
Pietre laviche e lastroni seppelliamoli d'asfalto...
...l'appalto

Ma non posso piu' accettare l'etichetta provinciale
E una Napoli che ruba in ogni telegiornale
Una Napoli che puzza di ragu' di malavita
Di spaghetti cocaina e di pizza margherita

Di una Napoli abusiva paradiso artificiale
Con il sogno ricorrente di fuggire e di emigrare
E di un popolo che a scuola ha creato nuovi corsi
E la cattedra che insegna qual'e' l'arte di arrangiarsi
Io non posso piu' accettare l'etichetta di terrone
E il proverbio che ogni figlio e' nu bello scarrafone
E mi rode che Forcella e' la kasba del furbone
Che ti scambia con il pacco uno stereo col mattone

Se io fossi San Gennaro giuro che vomiterei
La mia rabbia dal Vesuvio farei peggio di Pompei
E poiche' c'ho preso gusto con la scusa del santone
Io ritengo che sia giusto fare pure qualche nome

Chiedere a Pino Daniele che fine ha fatto terra mia
Siamo lazzari felici quanno chiove 'a pecundria
Napule e' 'na carta sporca Napule e' mille paure
Ma pe' chhiste viche nire so' passate 'sti ccriature

Da Pontano a Paisiello Giulio Cesare Cortese
Da Basile a Totonno Petito fino a Benedetto Croce
Da Di Giacomo a Viviani poi Caruso coi Parisi
Da Toto' ai De Filippo fino a Massimo Troisi

C'e' passato Genovesi e Leopardi con orgoglio
La romantica Matilde e il mattino di Scarfoglio
Filangieri Cardarelli tutto l'oro di Marotta
C'e' passata la madonna che ora vedi a Piedigrotta

Un Luciano De Crescenzo Bellavista di Milano
E Sofia che da Pozzuoli oggi parla americano
Un Roberto De Simone che le ha preso pure il cuore
Ora cerca di sfruttarala Federico Salvatore

Ma non posso tollerare chi si arroga poi il diritto
Di cambiare e trasformare tutto cio' che e' stato fatto
Di chi vuol tagliar la corda con la vecchia tradizione
Di chi ha messo nella merda la cultura e la canzone

Io non posso sopportare che un signore nato a Foggia
Porta Napoli nel mondo e la stampa lo incoraggia
E che il critico ha concesso al neomelodico l'evento
Di buttare in fondo al cesso Napoli del novecento

Perche' ancora io ci credo e mi incazzo ve lo giuro
Che Posillipo e Toledo li divide un vecchio muro
Come quello di Berlino che ci spacca in due meta'
Uno e' figlio 'e bucchino l'altro e' figlio 'e papa'

Se io fossi San Gennaro giuro che mi vestirei
Pulcinella Che Guevara e dal cielo scenderei
Per gridare alla mia gente tutto cio' che mi fa male
E finire da innocente pure io a Poggioreale

Perche' come Gennarino sono vecchio in fondo al cuore
La speranza Iervolino puo' lenire il mio dolore?
Io ho capito che la vita e' solo un viaggio di ritorno
Che domani e' gia' finito e che ieri e' un nuovo giorno
Sembra un gioco di parole ma mi sento piu' sicuro
Coi progetti dal passato e i ricordi del futuro
E alla fine del mio viaggio chiedo a Napoli perdono
Se ho cercato con coraggio di restare come sono

 

Federico Salvatore

 


Mi chiamo Paola e sono una venticinquenne parte integrale e consapevole della “zona grigia”, del Sud di mezze tinte del quale Lei, uomo del sud come me, ha parlato in uno dei suoi ultimi editoriali. Sto scrivendo questa lettera non solo per darle ragione e per ammettere che tutto ciò che ha scritto in modo così chiaro in quell’articolo sia vero, ma soprattutto per dimostrarLe (sono convinta di non essere la prima) di quanto sia grande la consapevolezza delle sue parole tra noi giovani. Io abito in un paese di 7000 abitanti in provincia di Potenza. Da circa due mesi, subito dopo la laurea, vi sono ritornata stabilmente, con la speranza e la sicurezza di non dovervi trascorrere il resto della mia vita. Ho finora omesso il nome del paese perché sono convinta che il solo citarlo Le farà venire in mente almeno due motivi per i quali esso è famoso socialmente e politicamente. Ebbene, io abito a Senise. Le dice qualcosa? Senise negli ultimi venti anni è diventato famoso per due eventi che, sebbene in modo diverso, si sono rivelati in tutta la loro tragicità. Il primo, indiscutibile, è stata la frana del 1986, che ha seppellito 7 persone. Il secondo è la realizzazione dell’invaso di Monte Cotugno, una delle più grandi dighe del mondo in terra battuta. Non mi fraintenda: so che l’invaso fu costruito con lo scopo di portare l’acqua nella Sua regione e credo che questa sia una ragione sacrosanta. La tragicità della vicenda, infatti, secondo me non ha a che fare con la concreta realizzazione della diga; il problema è che l’acqua dell’invaso ha portato a galla l’inadeguatezza delle amministrazioni locali nel saper gestire un’opportunità di sviluppo sacrosanta nei confronti di un territorio che fino agli inizi degli anni 80 era il centro di una produzione agroalimentare che il resto della regione ci invidiava. Io ho conosciuto quei tempi attraverso i miei 4 o 5 anni, ma ho imparato a rimpiangerli attraverso i racconti dei tantissimi agricoltori ai quali le fertili pianure dove ora si trova la diga sono state tolte. Da allora l’economia agricola del senisese ha conosciuto un indebolimento allucinante, dovuto anche a quelle che io chiamo forzate vocazioni industriali del nostro territorio. A questo si aggiunga il forte campanilismo della nostra pur piccola area, in cui ognuno, invece di favorire una cooperazione, preferisce aspettare che crepino le pecore  del vicino. Mi creda, ho ripetuto queste cose talmente tante volte che spesso ho l’impressione di parlarne in modo superficiale. O forse questa impressione deriva dalla “accettazione supina, dal fatalismo, dalla pazienza, dalla rassegnazione, se non dalla complicità” nei confronti di situazioni che vengono prese come buone perché considerate più grandi e lontane da noi. E non le nego che, nonostante io mi indigni sul serio, ho paura di rapportarmi a tali problemi dall’alto di chi ha la sfrontata e per giunta non garantita sicurezza che prima o poi acquisterà un biglietto per l’altrove. Mi guardo intorno e vedo ambizioni in estinzione, infrastrutture inesistenti, demagogia da quattro soldi da chi non ha vergogna neanche di non saper raccontare bene le favolette della buona notte. Vedo un paese meraviglioso e ricco di storia in cui quello che è considerato l’ingegnere più in voga dichiara di voler abbatter un centro storico già di per sé martoriato dall’incuria; vedo opere di consolidamento del 70 per cento del centro abitato a rischio frana (consolidamento cominciato dopo il 1986) mai monitorate ed ora praticamente inefficaci.  Perché il nostro territorio sta morendo? Perché, nonostante esso sia stato amato, celebrato da grandi menti del passato, si sta spegnendo sotto gli inebetiti occhi di chi ci vive, come se fosse l’ultimo gatto randagio investito per strada? E soprattutto: cosa possiamo fare per cambiare le cose? È normale per me, a 25 anni, con tanta voglia di fare nella testa e nel cuore,  pensare che certe cose non cambieranno mai? Se avrà la pazienza di leggere la lettera fino in fondo, voglio che sappia che io mi sento portavoce di tantissimi altri giovani come me. Nel nostro piccolo cerchiamo di fare qualcosa. Ma è molto difficile. Colgo l’occasione per ringraziarLa, perché merita sempre un ringraziamento chi scrive un pezzo in grado di suscitare in me, come in chiunque altro, indignazione, consapevolezza, rivendicazione e speranza.

                                               

Con stima

Paola

 


Lisbona, 1938. Un giornalista in là con gli anni, una passione civile quasi sopita, i difficili anni portoghesi sotto un regime dittatoriale. L’incontro con un giovane sovversivo, la presa di coscienza dopo un tragico e ingiustificabile evento.

 

Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira 1993  

 

“Il problema è che lei non dovrebbe mettersi in pro­blemi più grandi di lei, avrebbe voluto rispondere Pereira. Il problema è che il mondo è un problema e certo non saremo noi a risolverlo, avrebbe voluto dire Pereira. Il problema è che lei è giovane, troppo giovane, potrebbe essere mio figlio, avrebbe voluto dire Pereira, ma non mi piace che lei mi prenda per suo padre, io non sono qui per risolvere le sue contraddizioni. Il problema è che fra noi ci deve essere un rapporto corretto e professionale, avrebbe voluto dire Perei­ra, e lei deve imparare a scrivere, altrimenti, se scrive con le ragioni del cuore, lei andrà incontro a grandi complicazioni, glielo posso assicurare.

Ma non disse niente di tutto questo. Accese un sigaro, si  asciugò col tovagliolo il sudore che gli colava sulla fronte, si sbottonò il primo bottone della camicia e disse: le ragioni del cuore sono le più importanti, bisogna sempre seguire le ra­gioni del cuore, questo i dieci comandamenti non lo dicono, ma glielo dico io, comunque bisogna stare con gli occhi aperti, nonostante tutto, cuore, sì, sono d'accordo, ma anche occhi bene aperti, caro Monteiro Rossi, e con questo il no­stro pranzo è finito, nei prossimi tre o quattro giorni non mi telefoni, le lascio tutto il tempo per riflettere e per fare una cosa per bene, ma proprio per bene, mi chiami sabato prossimo in redazione, verso mezzogiorno. (…)  E’ difficile avere una convinzione precisa quando si parla delle ragioni del cuore, sostiene Pereira.”

 


Questo testo mi è stato inviato da una mia cara amica via email. Non so se corrisponda a verità, ma so che è in grado di sucitare forti emozioni capaci di far riflettere su qualcosa che potrebbe capitare a tutti noi. Dopo averlo letto potete farlo girare via mail anche voi. A presto. Mp

Mamma, sono uscita con amici. Sono andata ad una festa e mi sono ricordata quello che mi avevi  detto: di non bere alcolici. Mi hai chiesto di non bere visto che dovevo guidare, cosi ho bevuto una Sprite. Mi son sentita orgogliosa di  me stessa, anche per aver ascoltato il modo in cui, dolcemente, mi hai  suggerito di non bere se dovevo guidare, al contrario di quello che mi  dicono alcuni amici.

Ho fatto una scelta sana ed il tuo consiglio è stato giusto. Quando  la festa e finita, la gente ha iniziato a guidare  senza essere in condizioni di farlo. Io ho preso la mia macchina con la  certezza  che ero sobria. Non potevo immaginare, mamma, cio che mi aspettava...
Qualcosa di inaspettato! Ora sono qui sdraiata sull'asfalto e sento  un poliziotto che dice: "il ragazzo che ha provocato l'incidente era ubriaco". Mamma, la sua voce sembra cosi  lontana... Il mio sangue e sparso dappertutto e sto cercando,con tutte  le mie forze, di non piangere. Posso sentire i medici che dicono:  "questa ragazza non ce  la fara".  Sono certa che il ragazzo alla guida  dell'altra macchina  non se lo immaginava neanche, mentre andava a tutta  velocita. Alla fine  lui ha deciso di bere ed io adesso devo morire... Perche le persone fanno  tutto questo, mamma? Sapendo che distruggeranno delle vite? Il dolore è  come se mi pugnalasse con un centinaio di coltelli contemporaneamente. Di a mia sorella di non spaventarsi, mamma, di a papà di essere forte.

Qualcuno doveva dire a quel ragazzo che non si deve bere e  guidare... Forse, se i suoi glielo avessero detto, io adesso sarei viva...la  mia respirazione si fa sempre piu debole e incomincio ad avere veramente paura.. Questi sono i miei ultimi momenti, e mi sento cosi disperata...Mi piacerebbe poterti abbracciare mamma, mentre sono sdraiata, qui, morente. Mi piacerebbe dirti che ti voglio bene per questo...Ti voglio bene e....addio.

Queste parole sono state scritte da un giornalista che era presente all'incidente. La  ragazza, mentre moriva, sussurrava queste parole ed il giornalista scriveva...scioccato.

Questo giornalista ha iniziato una campagna contro la guida in stato di ebbrezza. Se questo messaggio è arrivato fino a te e lo cancelli...

potresti perdere l'opportunità, anche se non bevi, di far capire a molte persone che la tua stessa vita è in pericolo.
 

 


Potere temporale o potere spirituale?

Cosa pensate degli esponenti clericali che entrano sempre più pesantemente nelle questioni politiche? é giusto secondo voi? Io penso che esistano due tipi di politica. La politica morale, quella che riguarda tutti gli aspetti del nostro vivere quotidiano e cosa sia giusto o sbagliato. E poi la politica partitica, che ha a che vedere con le campagne elettorali, con le prediche demagogiche e con le interviste televisive. Considerando l'importanza che la Chiesa ha nel nostro Paese, e del suo indiscutibile peso visto che il Vaticano è tra gli stati più ricchi del mondo, nessuno priva eccellenze ed eminenze di dire la loro e di essere guida per quelli che sono le inquietudini umane. Anzi, guai se non lo facessero. Ma da qui, ad intervenire su questioni di partito, a schierarsi da una parte piuttosto che da un'altra ce ne vuole. Insomma, una cosa è dire "la viota l'ha creata Dio e solo Dio può decidere a proposito di questa creazione" un'altra cosa è comparire a reti unificate ed esortare gli italiani timorati dall'abitudine di un pensiero a non recarsi alle urne per il referendum della fecondazione assistita. Di seguito un resoconto delle dichiarazioni di Benedetto XVII a proposito degli interventi della chiesa nei confronti dello Stato. Cosa ne pensate? MpV

(ASCA) - Citta' del Vaticano, 18 nov - ''Lo Stato non dovrebbe avere difficolta' a riconoscere nella Chiesa una controparte che non reca alcun pregiudizio alle sue funzioni a servizio dei cittadini'' Lo ha detto oggi Benedetto XVI parlando ai vescovi della Repubblica Ceca per la conclusione della loro visita ad limina. ''La Chiesa infatti - ha aggiunto il Papa - sviluppa la sua azione nell'ambito religioso, per consentire ai credenti di esprimere la loro fede, senza tuttavia invadere la sfera di competenza dell'autorita' civile. Con il suo impegno apostolico e poi con il suo contributo caritativo, sanitario e scolastico essa promuove il progresso della societa' in un clima di grande liberta' religiosa. Com'e' noto, la Chiesa non cerca privilegi ma solo di poter svolgere la sua missione. Quando ad essa viene riconosciuto questo diritto, in realta' e' l'intera societa' che ne trae vantaggio''. Nel suo discorso ai vescovi Papa Ratzinger ha affrontato anche il tema del difficile dialogo tra chiesa societa' dove c'e' ''un numero crescente di vostri concittadini che si dichiarano non appartenenti ad alcuna chiesa''. E al tempo stesso ''l'interesse con cui la societa' civile segue l'attivita' della Chiesa cattolica e dei suoi programmi. Penso che le devastazioni materiali e spirituali del precedente regime abbiano lasciato nei vostri concittadini, ora che hanno riacquistato la piena lierta', l'ansia di recuperare il tempo perduto, proiettandosi in avanti, senza riservare forse una sufficiente attenzione all'importanza dei valori spirituali che danno nerbo e consistenza alle conquiste civili e materiali''.

 


 

Tutti noi siamo con i piedi nella fogna.

 Alcuni, però, guardano alle stelle
O.Wilde


Carissimi navigatori,
queste pagine sono dedicate a tutti coloro i quali vogliono affrontare problematiche legate al nostro territorio e non solo e che spesso non trovano risposte in nessun altro luogo. I creatori di questo sito ed io, che sono la responsabile di questa pagina, non abbiamo pretese di grandezza, se non quella che deriva dalla più sincera umiltà nel confrontarci da giovani cittadini con il mondo che ci circonda e con le persone che ne fanno parte. Per questo qui troverete sempre un luogo libero per mettere in campo le vostre opinioni e le vostre inquietudini. E, soprattutto, le vostre proposte. Per cui, la mia prima proposta è proprio quella di consentire a tutti voi di lanciare le vostre, per discuterle insieme e far nascere una consapevolezza politica a 360 gradi di ciò che viviamo. Spero, inoltre, che gli articoli (miei o di altri) che sceglierò di pubblicare siano il più possibile di spunto ad una riflessione che, spero, sia soltanto all'inizio.
Grazie dell'attenzione, conto nella vostra collaborazione.

Mariapaola

 


          

per inviare un articolo o lasciare un messaggio potete contattarmi a: mariapaolaver@tiscali.it

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