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Il coaching e il suo sviluppo in italia: intervista a Andrea Zavaglia |
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15/03/2022 | “ To coach”: verbo inglese che letteralmente significa “allenare”, e il “coaching”, nella sua accezione più ampia, allena alla motivazione, alla focalizzazione dei propri obiettivi, al coraggio, ad un atto di comprensione verso se stessi e ad una successiva autodeterminazione e presa di posizione con il mondo e con gli altri. Allenarsi al bene, per se stessi e per gli altri, a configurare i propri obiettivi, a sviluppare una metodologia pratica ai fini del raggiungimento degli obiettivi preposti. Il coaching è tutto questo ed altro ancora. Una disciplina poliedrica e compatta allo stesso tempo, con diverse numerose sfaccettature finalizzate alla consapevolezza e alla riuscita di un obiettivo. Il coaching è anche una forma di orientamento al lavoro, un approccio scientifico che si sviluppa su un pragmatismo psicoanalitico, attento sia al mercato del lavoro che alla sfera individuale.
La definizione del libro di Pannitti – Rossi, “L’essenza del coaching”, edito da Franco Angeli nel 2012, descrive il coaching come “un metodo di sviluppo di una persona, di un gruppo o di un’organizzazione, che si svolge all’interno di una relazione facilitante, basato sull’individuazione e l’utilizzo delle potenzialità per il raggiungimento di obiettivi di cambiamento/miglioramento autodeterminati e realizzati attraverso un piano d’azione.”
Insomma, il coaching aiuta a focalizzare e raggiungere gli obiettivi che si desiderano. Andrea Zavaglia è uno dei più affermati e talentuosi coach sul panorama del coaching in Italia, con un grande valore umano e professionale. Nell’intervista che segue, Andrea Zavaglia vi racconta la sua esperienza personale e qualcosa in più sul vasto mondo del coaching, augurandoci che questa professione acquisisca presto la legittimità istituzionale che ancora gli manca.
Come nasce questa sua passione e come ha fatto a renderla una professione?
Io credo che il desiderio di aiutare gli altri sia insito in ognuno di noi. Per me almeno è sempre stato molto forte, sin da piccolissimo. Non so contare il numero di volte in cui mio padre mi chiamava “l’avvocato delle cause perse” e io sorridevo sornione.
Poi devo dire che non ho mai pensato potesse diventare una vera e propria professione, finché nel 2011 ho scoperto che c’era un vero e proprio mondo da scoprire: formazione, crescita personale, coaching… e allora senza pensarci su nemmeno tanto mi sono buttato, stravolgendo la mia vita e iniziando da subito a darmi da fare.
Una passione diventa una professione se impari a valorizzarti e se entri in quella nuova identità: non deve essere un passatempo o un secondo lavoro… ma una vera e propria missione!
Che tipo di utenza si rivolge ad un coach e perché? Quale la sua utilità?
Avere un Coach, ovvero una persona che ti accompagna nel percorso verso i tuoi obiettivi, è di sicuro utile per chiunque. Tutti abbiamo bisogno di un coach, soprattutto per quel tipo di obiettivi o cambiamenti che ci generano più difficoltà.
Quindi la risposta alla prima domanda potrebbe essere “tutti”.
Nel mio caso specifico, si rivolgono a me soprattutto genitori di ragazzi adolescenti in difficoltà, magari con tematiche di autostima e sicurezza; poi sportivi, allenatori e atleti; e poi persone in difficoltà, persone che stanno cercando di cambiare qualcosa della loro vita e che non riescono a farlo da sole.
Da un punto di vista istituzionale la sua figura professionale non è ancora riconosciuta, ad esempio attraverso un albo come per altre categorie. Quali sono le prospettive future rispetto a questo aspetto e quali dovrebbero essere le azioni politiche a riguardo?
Io personalmente spero che le cose restino sempre così. Non vedo vantaggi nel creare albi fatti di regole, dogmi, cariche istituzionali , che poi porterebbero inevitabilmente ai classici inciuci all’italiana…
Il mercato decide anche senza albi: le persone fanno la differenza, questa è la verità.
Il coaching è poco sviluppato al sud. Quali potrebbero essere secondo lei le azioni per sensibilizzare questo tipo di mentalità per renderla una realtàpiù estesa?
Intanto bisognerebbe capire se ce ne sia un reale bisogno o meno.
Poi, una volta verificata la necessità, credo che i mezzi più veloci siano lo sport e le realtà aziendali: se un atleta parla di quanto il coaching gli possa essere d’aiuto, di certo le masse si sensibilizzano; poi è la volta delle aziende, che con investimenti in formazione sulla persona, in modo da far sperimentare l’efficacia a più persone possibili.
Roberta La Guardia |
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