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Recensione de 'La fine dell’Europa Nuove moschee e chiese abbandonate' |
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9/10/2017 | Il libro di Giulio Meotti “La fine dell’Europa Nuove moschee e chiese abbandonate” di 224 pagine edito nel 2016 dalle Edizioni Cantagalli, ed acquistabile al prezzo di 17 euro, mette in rilievo chemolti musulmani non ritengono che la religione sia un fatto privato, e alcuni di loro stanno lavorando per costruire uno stato in cui l’islam sia la fonte della legge e per l’ortodossia sociale. L’effetto di questo si fa già sentire in tutto il nostro continente, e non che il desiderio della legge della sharia potrebbe crescere, poiché tra i figli dei nuovi arrivati cresce la disillusione nei confronti del nostro stile di vita materialista. Infatti, come sottolinea Meotti, la nostra incapacità di riprodurci non è causata dalla povertà o dalla debolezza genetica, ma alla ricchezza, all’indolenza e alla voglia di aggrapparsi alla sicurezza dello stato sociale. Ci ritiriamo dal lavoro il prima possibile, e persino i giovani sono inclini a ritenere i figli un peso.
I mali di cui stiamo soffrendo sono stati già da lungo tempo indicati dalla Bibbia, spesso dalle vertigini del Numero, a partire dalle deportazioni, dalle uccisioni di massa e dalle epidemie fino alla molteplicità dei nomi che il Demonio assume. Il Numero, che è dunque un segno del Demonio, il libro di Giulio Meotti lo esprime in un vocabolario del tutto differente: l’autore lo ripone quasi completamente su delle statistiche – e queste, lo si sa bene, sono spesso uno strumento per manipolare l’opinione pubblica, in altre parole di propaganda democratica, far parlare il Numero dando, all’occorrenza, voce all’ideologia liberal per la quale l’argomento economico si presume faccia tacere tutte le divergenze di opinione, compreso ciò che rientra nella crisi di civilizzazione. Le statistiche che spiega Giulio Meotti a proposito della catastrofe demografica europea provengono da fonti così diverse che possiamo sentirle come se fossero la musica funebre del nostro tempo: il rintocco di quello che ancora chiamiamo “Europa” e che tanto vorremmo che non si confondesse con lo spazio economico-ideologico che viene chiamato “Unione Europea”. Per quanto riguarda la verità di queste cifre, se non dessimo credito a queste statistiche, l’evidente capovolgimento etnico del Vecchio Continente ne testimonierebbe la verità, in particolare per l’immigrazione extra-europea. La questione è diventata esplosiva al punto che la Francia, uno dei paesi più colpiti da questa immigrazione, proibisce le statistiche etniche in nome dell’antirazzismo di stato: è questo un modo per rifiutare di quantificare non l’immigrazione ma le sue conseguenze, presentando l’immigrazione come una “opportunità” e persino una “salvezza”: dal momento che non siamo più in grado di riprodurci, gli “stranieri” ci salveranno, dicono all’unisono il capitalismo globalizzato e i benefattori post-nazionali. Noi saremo dunque salvati dal Numero, la cui composizione è contraria oppure ostile a ciò che noi siamo, noi che abbiamo venduto la nostra anima all’individualismo edonista e che siamo invecchiati senza saperlo, contando sulla scienza per renderci “immortali”, in una escatologia irrisoria, e sulle popolazioni venute da “altrove” per rimediare alla nostra povertà numerica.
Giulio Meotti non sostituisce il Numero al pensiero; le cifre gli forniscono l’occasione per una riflessione sul suicidio di un continente che, senza sottostimare gli apporti di altre civiltà ha dato il meglio di sé all’Occidente e al mondo, un mondo del quale si prevede che conterà ben presto nove miliardi di essere umani: per la prima volta nella storia, l’uomo, in quanto tale, sta diventando una catastrofe ecologica, e non più una semplice fonte di nocività. I filantropi e gli irenisti vedono in ciò un compimento naturale dell’idea di “progresso” e asseriscono che la terra avrà di che nutrire questi nove miliardi, senza precisare, ovviamente, che la maggior parte di questi nove miliardi è asiatica e africana, che lo squilibrio etnico è già in cammino, mentre la propaganda esalta attivamente il grande fantasma di un mondo chiamato a diventare un Brasile.
Biagio Gugliotta
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