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Sono i 30enni lucani i più «bamboccioni» ma è solo colpa loro? |
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31/08/2011 |
| La Basilicata è la regione che registra, in rapporto alla popolazione residente, il più alto numero di over 30 «aggrappati » ancora alle rispettive famiglie. Una ricerca dell’Istituto lard, in particolare, ha dimostrato che su 2.500 giovani lucani tra i 25 e i 35 anni, più della metà (57,3%) vive ancora con i genitori. Non si tratta sempre di una necessità economica, né del ritorno a una famiglia di tipo patriarcale. Secondo i sociologi dell'Istituto, invece, è il risultato di una società permissiva e consumista che non riesce più a soddisfare le aspettative dei giovani per i quali la famiglia diventa un rifugio. È anche vero, però, che questi ragazzi «cresciuti» non riescono a diventare grandi, a uscire di casa. Invischiati in una provvisorietà esistenziale per via del lavoro che non c’è o che è talmente precario da disincentivare qualunque progetto. Una specie di vita «usa e getta» che non invoglia a conquistarsi la propria autonomia. Che non offre garanzie sufficienti per decidere di mettere su casa o di concepire figli.
Ma torniamo ai dati. Sono più gli uomini che le donne (67.4% contro 45.9%) i «mammoni » di Basilicata. Un dato che riporta al vecchio luogo comune che se una donna non si sposa è un’acida «zitella», mentre l'uomo è un simpatico «vitellone». Un pregiudizio superato in molte società, ma che nell'area mediterranea è ancora molto sentito, tanto che fra Ie «mammone» intervistate nell’ambito della ricerca molte rinunciano all'indipendenza proprio per risparmiare per il matrimonio. Ma i «bambini» di 30 anni in realtà alcune attenuanti le hanno. lnnanzitutto la struttura della scuola e dell’università. La scuola superiore termina a 18 anni. Quindi si va all’università e si finisce il ciclo di studi a 24-25 anni. Poi c`è la specializzazione o il tirocinio professionale, ma i ragazzi, mancando campus e alloggi universitari, fino a quell’età vivono in famiglia. Una volta entrati nella società e diventati adulti faticano ormai ad abbandonare le comodità di cui hanno sempre goduto: colpa della difficoltà di trovare lavoro e dei prezzi delle case assolutamente fuori portata per chi «lavoricchia» o è precario.
È vero, per molti giovani questa incertezza porta a ritardare le scelte definitive e a cercare rifugio nella famiglia, ma alla fine diventa anche una scelta: quella di piegarsi alle circostanze. II risultato? L' esaurimento della famiglia stessa, che non si rinnova. Questi «mammoni», infatti, una volta che se ne vanno di casa e si sposano, non riescono a tagliare il cordone ombelicale che li ha alimentati per anni. E i genitori, così abituati a far parte della vita del figlio, si inseriscono nel matrimonio, nelle piccole e grandi cose. Spesso contribuendo a «sfasciarlo ». Il nostro giornale - come si vede nelle storie che abbiamo raccolto - diventa catalizzatore del dissenso d’una generazione con molti problemi, poche certezze e sempre meno speranze.
«Se per un bilocale ti chiedono 500 euro d’affitto - scrive un lettore - e ne guadagni ottocento, difficilmente puoi staccarti dalla famiglia d’origine». Magri stipendi che, a volte, ci informano da Rionero - «son addirittura acquisiti nel bilancio familiare», perché papà è in cassa integrazione, mamma è casalinga e il «piccolino» di casa ha solo vent’anni e una fame da lupi. Capita così che siano in pochi coloro che decidono, con sadica scelta, di non mollare il portafoglio dei genitori. Un lavoro da insegnante elementare. Stipendio modesto, ma sufficiente per rinunciare al pollo ripieno della domenica a casa di papà. «Sto qui e non mi muovo - comunica una lettrice di Matera - per ora non ho nessuna intenzione di andar via». Che vuoi fare, quando l’allora ministro Padoa Schioppa li chiamò «bamboccioni» sparò forse nel mucchio, ma in qualche caso ha anche colpito il bersaglio. C’è chi ci dice: «Ho solo 33 anni, sono ancora figlio di famiglia per scelta». Vivaddio e povero cuore di mamma. Non sa neanche rifarsi il letto.
di MASSIMO BRANCATI
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Non con i miei soldi. Non con i nostri soldidi don Marcello CozziParlare di pace in tempi di guerra è necessario, ma è tardi.
Non bisogna aspettare una guerra per parlarne. Bisogna farlo prima.
Bisogna farlo quando nessuno parla delle tante guerre dimenticate dall'Africa al Medio Oriente, quando si costruiscono mondi e società sulle logiche tiranniche di un mercato che scarta popoli interi dalla tavola dello sviluppo imbandita solo per pochi frammenti di umanità; bisogna farlo quando la “frusta del denaro”, come ...-->continua
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